L'ambasciata del cielo
da "Asporti non autorizzati"
A Napoli c’erano molti consolati. Da più di cento anni non si vedeva, però, un’ambasciata.
Strano, quindi, che apparisse una grande targa azzurra con su scritto “Ambasciata del Cielo” su un portone di via San Gregorio Armeno.
Il posto non sembrava per niente indicato. Non si trattava, infatti, di un luogo elegante. Il grande appartamento, trasformato in sede diplomatica, era il più lurido del palazzo.
Da un altro punto di vista, comunque, la localizzazione pareva felice. In quella strada da secoli si trafficava in qualche modo con il Cielo. Si costruivano presepi, figure di angeli e di santi.
Quelli che si definivano “consiglieri diplomatici” cominciarono a darsi molto da fare. La mattina scendevano presto in strada. Si fermavano di fronte ai negozi di figurine. Additavano certe riproduzioni e cercavano somiglianze con qualcuno che, evidentemente, conoscevano.
I consiglieri erano sempre infagottati in soprabiti molto larghi. Sulle spalle si notava una specie di gobba, che era un ammasso di piume nascoste.
I consiglieri curarono l’arredamento dell’amba-sciata ed assunsero il personale.
Questo “Cielo” non aveva molti soldi da spendere. I mobili e le suppellettili acquistate erano in puro stile “immondizia”. E, addirittura, come contenitori di archivio furono scelti proprio dei cassonetti dell’immondizia.
Il personale era, poi, all’altezza dell’arredamento. Gli angeli avevano reclutato barboni a decine.
Molte persone raffinate, ricche ed eleganti fecero una capatina all'Ambasciata del Cielo. Giusto per vedere se ci scappava un viaggio esotico. Quella gente dabbene fuggì via inorridita.
Bastava dare un’occhiata all’ingresso. Un enorme e pulcioso cane bastardo teneva tra le zampe un grande pezzo di pane secco. Di fronte a lui c’era una specie di custode. A giudicare dal fetore, quel tizio e i suoi vestiti non conoscevano acqua da anni. Un gigantesco bozzo sulla testa contribuiva a rendere il custode più repellente.
La situazione, nelle stanze interne, era da vomito.
L’Ambasciata del Cielo annunciò il “gran ballo di inaugurazione con distribuzione di visti d’ingresso”. Ricevettero l’invito migliaia di persone, il sindaco, le autorità, professionisti, industriali, commercianti, banchieri.
Nessuno si presentò.
Eppure, era stato preparato tutto in pompa magna.
All’ingresso, due vecchi valletti reggevano candele smozzicate. Gli anziani servitori erano in costumi del settecento, stracciati in più punti. Le calze erano smagliate. Un ammasso di peli bianchi doveva rappresentare le parrucche. Su queste ultime circolavano indisturbati enormi pidocchi.
Nel salone delle feste qualcuno aveva fatto pipì. Nel grande ambiente si aggirava altro personale. Gli addetti, sempre in costume del settecento, con una mano reggevano vassoi di “cibarie”. Con l’altra trascinavano bauli d’epoca quasi sfasciati o buste della spesa. Anche gli involucri di plastica erano intonati all'epoca. Si poteva leggere “Rosticceria Pompadour”,
“Salumeria Luigi XIV”.
I poveretti giravano a vuoto. Inutilmente offrivano tartine di croste di pane, torsoli di mela, bucce di banana.
All'improvviso, finalmente, l’Ambasciata si animò. I gatti e i cani randagi furono i primi a rompere il ghiaccio. Seguì una fiumana di poveri cristi.
Tutti mostravano di trovarsi veramente a loro agio in quel luogo.
Apparvero due anziani signori dall'aspetto splendente. Vestivano con tuniche bianche ed avevano due belle aureole sulla testa.
Il primo guardò la folla. Cercò, inutilmente, gli invitati importanti. Commentò:
“È più facile che un cammello..”
Francesco lo bloccò:
“Pietro, ti prego... Lo sai. Non mi piacciono le citazioni.” Il santo era attorniato da cani e gatti.
Aveva il suo bel da fare per parlare con tutti.
La festa durò a lungo.
All'alba, assonnati ma felici per la riuscita dell’incontro, San Pietro e San Francesco si sedettero a due tavoli.
Davanti a loro si formarono due fila lunghissime.
San Francesco faceva volare i timbri, pur di concedere i visti ai gatti e ai cani che ne facevano richiesta.
San Pietro si impegnava al massimo, per consentire l’espatrio alla fiumana dei richiedenti, poveri e barboni (personale d’ambasciata compreso).
Quando l’ultimo degli ultimi (cane o gatto, uomo o donna) fu soddisfatto, l’ambasciata chiuse i battenti.