La formichina
da "Asporti non autorizzati"
Tutti guardavano, e con evidente disprezzo, verso il luogo nel quale, nelle corti di giustizia, siede l'imputato. Solo che in quel punto non c'era nessuno. A guardar bene, lì era stata collocata solo una scatolina di legno, coperta da un vetro. Dentro il contenitore una povera formica andava avanti ed indietro. Evidentemente era nervosa, forse perché era lei l'imputata.
Il processo si svolgeva a porte chiuse, data la scabrosità delle imputazioni, nella grande sala del convento femminile di Santa Genevieva in Napoli. Correva l'anno 1642. Il giudizio era stato istruito ed era ora condotto dai molto reverendi padri inquisitori.
L'oggetto della causa non mirava a sconfiggere eresie di alcun genere. Esso era di natura morale. Atteneva, più precisamente, alla morale sessuale.
Nel formicaio, installato da generazioni nel bel chiostro del Convento femminile di Santa Genevieva, sotto un platano maestoso, la situazione era diventata insostenibile.
Vuoi per il sole, vuoi per il mare, le canzoni e la musica, la maggior parte delle formiche operaie non faceva un cazzo dalla mattina alla sera.
L'eccezione, come sempre, c'era e si chiamava Giuseppina. Autentica formica stakanovista, girava come una trottola l'intera giornata. Rimediava, così, alle mancanze delle sue compagne.
Era tanto il lavoro che, a sera, Giuseppina era talmente stanca da perdere anche il lume della ragione. Capitò più di una volta che, senza capire neanche quello che faceva, sorretta dalla forza immane che a volte danno la stanchezza ed il rimbambimento, si caricasse sulle povere spalle un intero sfilatino di pane.
Le compagne non si peritavano di ringraziare Giuseppina, anzi ...
Di fronte a quei carichi spropositati, esclamavano incazzate: "E brava la stronza! Spiegaci ora come faremo a portare tutto questo pane nel formicaio!"
Quelle formiche oziose erano golosissime di cose dolci. La lussuria divenne il tramite dei loro peccati di gola.
La giovane suor Agrippina, monacata a forza dalla famiglia, nonostante le ripetute abluzioni nell'acqua gelata, non riusciva a liberarsi dai tormenti della carne. La poverina era, nello stesso tempo, terrorizzata dalle fiamme infernali, immancabili, a detta della madre superiora, per quelle monache che avessero osato farsi violare da mano umana, propria o altrui.
Agrippina, a parte i tormenti fisici e spirituali, era una grande osservatrice. Studiò a lungo il frenetico ed operoso agitarsi delle formiche. In realtà, prese un abbaglio. Come sappiamo, solo Giuseppina lavorava. Le altre passavano il tempo a passeggiare e a prendersi il sole.
Al termine di quegli studi falsati, Agrippina, che era anche ingegnosa, ebbe un'idea, che, nelle sue intenzioni, avrebbe messo d'accordo esigenze materiali e materiali. Non sarebbe stato coinvolta infatti mano umano e, meno che mai, qualcosa di più adatto.
Approfittando dell'assenza dal convento di tutte le consorelle, in cattedrale per una funzione solenne in onore di Santa Genevieva, fondatrice dell'ordine, la scellerata si spogliò completamente e si piazzò distesa e a gambe divaricate all'imboccatura del formicaio. Per rendere la situazione appetibile, Agrippina fece calare del miele liquido nella parte più sensibile di se stessa. Le formiche, alla vista della leccornia, impazzirono.
Gola e lussuria si fusero sordidamente in un cocktail micidiale di perversione.
Nessuno degli insetti si peritò di operare in corpore vili. Trattandosi di una questione lavorativa, fu inviata Giuseppina, che anche nel risvolto lussurioso, svolgeva il lavoro di mille formiche.
Giuseppina si diede subito da fare, ed iniziò un'attività frenetica ed intensissima nella fenditura meravigliosa. Arava febbrilmente nei campi fitti, ma le risultava difficile raccogliere i succhi fantastici. Non riusciva a staccare il miele da fittissimi cespugli. Più, però, i risultati erano vani, più la testarda insisteva e si agitava.
I febbrili movimenti davano alla suora l'impressione che non un solo esemplare, ma l'intero formicaio fosse dentro di lei. Mai formicolio fu tanto voluttuoso. La monaca non aveva mai conosciuto uomo e mostrava, ora, di godere dell'inconsistente.
Nel momento dell'estasi suprema, però, Agrippina aprì gli occhi e scorse, con orrore, i baffi della badessa.
La superiora era molto istruita in materia di morale. Non poteva non sapere di una novizia che si era accoppiata, per altra via, con uno scarabeo stercorario. La buona e dotta madre afferrò al volo la situazione. Acchiappò subito Giuseppina e la chiuse in un vasetto.
Quanto all'impudica monaca, essa fu relegata nella sua cella. Fu costretta a cibarsi di pane, acqua e di quel poco miele che era rimasto.
Agrippina riuscì a salvare la pelle. Messa alle strette dai buoni padri inquisitori, confessò di aver dovuto soggiacere alle immonde voglie di Satana. Il demonio aveva voluto dare prova della grandezza della sua attività, potente finanche sotto le spoglie di una formica. In sostanza il diavolo lanciava un subdolo messaggio agli uomini meno dotati e, perciò, complessati:
"Peccate in ogni caso, pure quando la dimensione vi fa ritenere inadatti!"
Agrippina, anche se aveva collaborato così attivamente con il tribunale, non poteva sfuggire, comunque, ad un esemplare castigo. Fu condannata al perpetuo esilio in un rigido ed isolato convento di montagna. Lì non sarebbe potuta cadere di nuovo in tentazione, perché la regola del santo luogo imponeva l'uso di insetticidi anche personali, primitivi ma potentissimi.
Quanto alla povera Giuseppina, il suo destino fu segnato dalla falsa confessione dell'insidiosa dispensatrice di miele.
Il processo, celebrato unicamente contro la formica, essendo stata stralciata la posizione della monaca, fu una farsa.
Non furono uditi testimoni a discolpa, né la stessa imputata.
Prima di morire tra le fiamme del rogo, al quale era stata condannata, Giuseppina non mancò di inveire contro le ingiustizie del mondo con un interrogativo drammatico: "È questa la ricompensa dopo un'intera vita di lavoro?"