Quattro commedie
da "Asporti non autorizzati"
A nessuno verrebbe in mente di chiedersi quale era il cognome, che so, di Aristofane, Plauto, Sofocle, Euripide. “E perché dovrei firmare proprio io, che non sono secondo a nessuno, le mie commedie con il cognome?” Perciò Enricone era in teatro, tra il pubblico e nella critica, conosciuto solo con il suo nome. Enricone, appunto.
Enricone, acclamato autore e attore egli stesso, come Moliere, non aveva buona fama tra i suoi collaboratori sulla scena. I suoi attori, calpestati, vilipesi, trattati con la frusta durante lunghissime prove, si vendicavano schizzando il veleno del pettegolezzo. Secondo quegli artisti, intervistati da giornalisti in cerca di facili retroscena, Enricone toglieva la battuta ai suoi compagni, per essere sempre al centro della scena. Altri dichiarazioni gli attribuivano un carattere tremendo, una totale mancanza di sentimenti, una spietata determinazione nel colpire gli altri. Ma, forse, in realtà, Enricone era un uomo esigente nei suoi rapporti con gli altri, perché chiedeva prima di tutto a se stesso il massimo, senza risparmiarsi. Resta il fatto, però, accertato per altre vie, che non erano quelle dell'ambiente teatrale, che il commediografo era un autentico carognone.
Enricone voleva sottrarsi ai limitati confini della sua città, dalla quale e dai suoi abitanti traeva ispirazione, per acquisire una dimensione universale. Per realizzare ciò, a volte utilizzava nomi di personaggi inglesi, come nella commedia “Il sussidio di disoccupazione”. Il protagonista aveva un cognome molto comune nella città di Enricone, ma per ascendere alle sublimi vette dell'universalità, era stato chiamato Smith dall'autore. Smith, povero in canna, non conosceva alcun mestiere. Era ultimo di undici figli. Le magre risorse della famiglia non gli avevano consentito di compiere studi regolari e di affacciarsi, quindi, sul teatro della vita con un minimo di conoscenze professionali. Da piccolo, aveva fatto lavori non specializzati, per procurarsi pochi soldi da consegnare, fino all’ultimo, alla madre. Sempre senza specializzarsi, questo Smith locale si era sposato ed era arrivato anche lui, come il padre, ad avere undici figli. La prima di questi, che aveva preso marito in tenerissima età, era già riuscita a mettere al mondo quattro creature.
La situazione per lo Smith locale si faceva ogni giorno più difficile. Doveva sfamare la moglie, undici discendenti diretti, quattro nipoti ed il genero disoccupato. Ogni mattina, Smith usciva e si proponeva per i lavori più umili. Quasi sempre ritornava a casa senza aver raggranellato un centesimo. Un giorno, ebbe un lampo geniale di ispirazione. Vide davanti a sé la strada per uscire da quella pesante situazione. La mattina successiva, andò, per la prima volta nella sua vita, all’anagrafe. Rilevò tutti i nomi di quelli, della sua età e con il suo cognome, che erano morti, per lo più di stenti, in quel periodo. La rilevazione durò molti giorni, perché gli Smith erano una legione sterminata. La moglie, in casa, per contribuire alla disastrosa economia della famiglia, aveva accettato, fino ad allora, piccoli lavoretti e commissioni da qualunque parte provenissero, anche dalla malavita. Poiché la donna, pur essendo rigorosamente non specializzata, era in possesso di qualche tendenza artistica, istintiva e non coltivata, le era stato spesso affidato il compito di dipingere delle false carte di identità per i delinquenti locali.
Fu un gioco per Smith utilizzare l’abilità della moglie per il benessere della famiglia. Si fece fare numerose carte di identità, intestate agli Smith morti. I documenti di identificazione gli servivano per portare a compimento il suo diabolico piano. Con le carte di identità riuscì a riscuotere i sussidi di disoccupazione degli Smith defunti, senza generare sospetti.
Rispondeva, infatti, con molta convinzione al nome di Smith. L’ufficio dove pagavano le indennità di disoccupazione, inoltre, non era in grado di stabilire alcun utile controllo, per il tanto lavoro arretrato determinato dalla cronica mancanza di personale. Come lo stesso Smith spiegava, quell’ufficio mancava di personale che lavorasse. Smith diventò in breve milionario; gli altri Smith, infatti, che non erano stati tanto abili da inventare un analogo meccanismo per la sopravvivenza, stavano morendo come mosche. Smith conquistò la ricchezza, non la felicità. A forza di assumere identità di altri, finì col perdere la sua. Da quel momento trascinò la sua vita chiedendosi continuamente: «Chi sono io?». Non sapeva quale Smith fosse. Finì col diventare solo uno strumento nelle mani di sua moglie e dei suoi figli. Questi ultimi, non essendo più poveri, avevano smesso di costituire una famiglia miserabile e felice. Erano diventati una massa amorfa di canaglie che pensavano solo al danaro. Il lavoro teatrale si concludeva drammaticamente. La scena rappresentava un ristorante alla moda, molto costoso. Quella, che era stata una bella famiglia felice, gozzovigliava intorno a più tavoli, solo apparentemente accostati. Il povero Smith era al centro, attorniato dai commensali famelici. L’uomo si grattava la testa. Aveva tutta l’aria di pensare intensamente. Non partecipava a quella che sembrava la generale felicità della sua gente. Ad un tratto, non potendo più trattenere l’idea fissa che gli tarlava il cervello, saltò come una molla sul tavolo, chiese silenzio e disse: «Chi sono io?» Il suo primogenito maschio, che era arrivato anche lui a undici figli, facilitato da un provvidenziale doppio parto quadrigemino della moglie, gli rispose. Il figlio alzò il bicchiere colmo di vino rosso e disse: «Papà sei una miniera». Sipario.
Un recensore della commedia sottolineava, dopo aver parlato dei sui contenuti, l’osservazione attenta e lo studio intenso, da parte dell’autore, della genialità del popolo della sua città. Gente che era capace di fare di necessità virtù, di sublimare lo spirito imprenditoriale. Quel popolo era capace di trasformare il piatto e freddo esercizio manageriale in superiore capacità di esprimere risultati usando unicamente, come materia di base, la gioia di vivere. Entrando nello specifico teatrale, il giornalista vedeva nella perduta di identità di Smith echi filtrati e rielaborati, alla luce della particolare situazione locale, nella quale l’autore era vissuto, del migliore Pirandello. Erano presenti, ovviamente, anche i temi tipici della grande commedia dell’arte.
Altro sublime lavoro di Enricone era «Il ritorno di Reginald». La guerra era finita da poco. Reginald, già prigioniero ed ora libero, era finalmente ritornato nella sua città. Lacero, scalzo ed affamato, era riuscito ad arrivare al vicolo dove abitava. Aveva percorso duemila chilometri, millenovecento a piedi e cento con mezzi di fortuna. Intontito com’era, aveva riconosciuto la sua strada dai cumuli di immondizia. «Eravate piccoli e ora vi siete fatti grandi assai». Era commosso. Respirò profondamente l’aria di casa. Qualcuno gli si fece incontro e premurosamente lo avvertì. Tutta la famiglia aveva fraternizzato con le truppe di occupazione. La moglie vedeva spesso un attempato maggiore, la figlia un giovane tenente. L’unico figlio maschio, nel quale Reginaldo aveva riposto tutte le sue speranze di padre affettuoso, da quando gli altri otto figli maschi erano morti molti anni addietro in una tremenda sciagura, era dedito al contrabbando, in combutta con furieri disonesti. Eppure, Reginaldo aveva lasciato la sua famiglia povera, ma onesta.
Affranto, ritornò sui suoi passi ed andò a vivere con un suo ex commilitone. L’amico, al ritorno dalla guerra, si era trovato nella stessa situazione di Reginald. Però lui aveva trovato la forza di cacciare di casa tutti i suoi parenti. Ora era solo nell’appartamento. Si era pentito e piangeva sempre. Reginald pensò alle disgrazie sue e del suo amico. Trovò una soluzione idonea, tale da consentirgli di riaffermare la sua autorità sulla famiglia, senza esiliare, né soffrire. Invitò un generale dell’esercito straniero a mangiare un piatto locale. Una focaccia cosparsa di salsa di pomodoro, condita con formaggio, basilico ed olio, e cotta nel forno a legna. Reginald fece ubriacare l’alto ufficiale e gli rubò l’uniforme. L’indossò, si fece crescere una lunga barba e tornò a casa sua. Nessuno dei congiunti lo riconobbe. Il falso generale ebbe buon gioco. Scacciò il maggiore, il tenente e i disonesti furieri. Si piazzò in casa e tiranneggiò la famiglia. Tutti furono intimoriti dalla presenza del graduato. In breve, riuscì ad ottenere un ordine inflessibile. Tutti si pentirono, trovarono un lavoro e condussero una vita morigerata. Un giorno, Reginald, pensando che la sua famiglia fosse ormai irreversibilmente cambiata, nel corso di una drammatica e memorabile scena madre, si tolse la divisa e rivelò chi era in realtà. La moglie lo riconobbe subito, da una vecchia cicatrice sul polpaccio. Sedette affranta su una sedia, piegò la testa sul petto e mormorò: «Non si fa così, non si fa così. Un buon marito, un buon padre non inganna la moglie, i figli...». La figlia, in ginocchio urlava: «Sei falso, sei falso». Il figlio, più pratico, uscì e ritornò subito dopo con la polizia militare, che portò via Reginald. Condotto davanti alla corte marziale, l’uomo chiese perdono e clemenza ed offrì la focaccia col pomodoro a tutti. Sipario.
Un critico, tessendo sperticate lodi del lavoro, metteva l’accento sulla negatività del personaggio Reginald. Uomo arido, che non riusciva ad esprimersi attraverso la gioia di vivere. Reginald era un vinto in partenza. Si capiva che non sarebbe stato capace di ottenere clemenza dalla corte, nonostante l’offerta delle focacce. La famiglia avrebbe avuto bisogno del suo cuore, non delle sue tendenze autoritarie. Come antecedenti letterari del lavoro di Enricone, il recensore non scorgeva la commedia dell’arte. Al giornalista piaceva, invece, ricordare l’influenza dei temi omerici. La divisa da generale come cavallo di Troia. Reginald come Ulisse. Solo il finale era ambiguo.
Altro capolavoro. «Sheila la Processionaria è commedia o tragedia?» Questo era il titolo che campeggiava su un giornale. «Certo, il lavoro è l’opera di un artista maturo» concludeva in grassetto, ma in caratteri più piccoli, l’articolista. Sheila era una povera vedova che, per tirare avanti, vendeva cravatte di seta thailandese, falsa, per evitare accuse di contrabbando. Non poteva permettersi di violare impunemente la legge, perché doveva sfamare sei figli. Malgrado si fosse sottoposta a cure costose, non era riuscita a mettere al mondo altre creature. Il marito, profondamente addolorato per la quasi sterilità di Sheila, era morto di crepacuore.
La donna esercitava il suo commercio ai margini di un ritaglio di verde, dove sorgevano pini secolari. Aveva la sua mercanzia in una carrozzina e teneva con sé, in un altro mezzo di trasporto per bambini, il suo ultimo nato. Non aveva a chi affidarlo, così, per evitargli i pericoli della strada, lo metteva nella carrozzina, benché avesse nove anni. Gli altri cinque, per aiutare la baracca, andavano tutti a lavorare. Un brutto giorno, un pesante, grosso ramo fradicio di pino cadde e colpì il povero bimbo. Il piccolo riuscì a sopravvivere, ma l’incidente lo aveva segnato irrimediabilmente.
Pazza di dolore, Sheila, in un drammatico confronto con il pino feritore, gli promise che avrebbe distrutto lui e tutta la sua razza. Sheila corse subito dal sindaco. L’amministratore era roso dal tarlo dell’ambizione e pronto a farsi irretire dalle lusinghe della corruzione. Sheila riuscì a spiegare all’uomo di governo, pur essendo ancora pervasa dal furore di madre offesa, i suoi propositi di vendetta e la loro origine. Il sindaco si mostrò interessatissimo. Abbracciò alla fine la donna. L’uomo piangeva. «Soffro di febbre da fieno». Sheila aveva sfondato una porta aperta. Il sindaco fece subito chiamare l’assessore all’edilizia, che era un uomo di legge, come tutti i componenti della giunta. «Deve dare uno scopo nobile alla sua missione. Abbatta, pure, tutti gli alberi della città, e al loro posto costruisca case abusive».
«Perché abusive?» chiese la donna.
«Non le possiamo dare la licenza. Ma, quando si saprà da quale nobile motivazione è animata, nessuno oserà contrariarla».
Seguendo i lungimiranti consigli dell’assessore all’edilizia, Sheila divenne in breve molto ricca. L’accumulazione della sua fortuna, incerta agli inizi, segnò una svolta positiva quando il sindaco e l’assessore caddero sotto i colpi di una banda di amministratori rivali. Alla fine, in un vecchio parco pubblico ormai senza alberi, disseminato di villette unifamiliari, un professore di botanica, segretamente innamorato della donna, le chiese la ragione del suo comportamento. Sheila indossava una pelliccia di visone su un vestito a fiori. Andò verso il centro della scena ed additò suo figlio invalido. Urlò: «L’ho fatto per lui, la carne della mia carne». Sipario.
Tra le commedie più significative di Enricone è certamente “Il pacco – The package”, nella quale egli entra mirabilmente nella psicologia e nel sentire profondo del popolo della città dove era nato. Bisogna premettere che tra quel popolo si annoveravano, con grande frequenza, abili venditori di materiale edile, per lo più mattoni, bellamente incartati. Si trattava di vendite sorpresa, perché per diletto del compratore il contenuto del pacco non si rivelava poi essere una macchina fotografica o un oggetto di valore, ma appunto un semplice mattone di superba fattura artigianale. Va da sé che quei venditori e, per la proprietà transitiva, anche i loro compatrioti ritenevano di possedere un'ancestrale, superlativa furbizia, che il resto del mondo non conosceva.
Ma veniamo al lavoro teatrale. La città di Reginaldo era la capitale di un antico regno. Il generale McKenzie sbarca sulle sue coste. Suoi emissari distribuiscono danaro in lungo e in largo perché si diffonda velocemente la buona novella. McKenzie porta un dono e lo vuole consegnare nella capitale. Nel dono, abilmente incartato, ci sono libertà, unità, liberazione dal tiranno e dall'oppressione, prosperità. Il generale percorre rapidamente miglia e miglia e arriva, senza colpo ferire, nella capitale. Nel corso di una cerimonia solenne il pacco viene aperto. All'interno non c'è nulla. Il popolo sghignazza. “Noi siamo più furbi, dentro ci avremmo messo almeno un mattone.”
La critica osannante affermò che Enricone aveva superato lo Shakespeare delle Allegre comari di Windosor.
Sipario. Definitivo.