Via Chiaia 421 Bis
da "Asporti non autorizzati"
Il grandissimo appartamento nobiliare, al primo piano dello storico palazzo di via Chiaia, era occupato dal cavalier Olindo Pacchiano. Il buon uomo, avanti con gli anni e malfermo, ma con certe sue energie nascoste, viveva da solo. Un suo unico, lontano parente risiedeva in Venezuela, dove era emigrato decine di anni prima.
Nulla mancava al cavalier Pacchiano. Godeva nella vecchiaia i frutti del durissimo lavoro di una vita, trascorsa ad affittare tori ed asini per la monta. L’onesto individuo si era sempre guardato bene dal mischiare lavoro e vita privata, così come gli aveva insegnato il padre, acuto uomo di affari. Così, si era astenuto dal praticare (con le sue simili), ciò che i suoi tori e i suoi asini erano impegnati a fare per dovere.
Si diffuse la voce che il cavaliere fosse in cattive condizioni di salute. La cosa cominciò a solleticare certi appetiti. L’arcivescovo fu prontamente informato dal parroco della zona. Il prelato, infatti, aveva ordinato a tutti i preti di avvisarlo subito, quando un vecchio, senza parenti vicini, stava per tirare le cuoia.
Pur nelle sue malferme condizioni, fu Olindo in persona ad aprire la porta a monsignor Michele Spurtiglione ed alle sue dame di carità. L’austero uomo di chiesa, che nell’aspetto iettatorio giustificava più di una grattata di palle, era il capo di una pia compagnia teatrale, fortemente voluta dall’arcivescovo. Non essendo possibile, anche se si era intorno al 1905, mostrare fotografie dell’Altissimo e del modo in cui si viveva presso di lui, era necessario che si presentasse la cosa con una raffigurazione vivente. Perciò Spurtiglione aveva organizzato numerose dame di carità dall’orribile bruttezza ed alcuni anziani signori con un piede nella fossa, e con un passato irrequieto, disposti a tutto pur di scansare l’inferno.
Spurtiglione venne subito al dunque. “Avete molto da farvi perdonare. Il vostro danaro, la vostra fortuna, questa casa stessa, provengono da atti immondi.”
“Giuro che non ho mai montato personalmente una vacca o un’asina.”
“Questo non fa differenza. Voi avete lucrato sulla fornicazione. Ciò la Chiesa condanna. Però, benché siate naturalmente destinato all’inferno, avete una possibilità di riscattarvi, una sola.”
Si diede inizio alla sacra rappresentazione. Le dame di carità, che facevano paura solo a vederle, si travestirono da angeli. Spurtiglione mise un triangolo dorato , a coprire la faccia e si sedette al centro della scena. Voleva dare ad intendere di essere l’Altissimo. Gli angeli fissavano il triangolo e muovevano grandi ali di cartapesta sulle spalle. Nella stanza, correnti d’aria determinarono un abbassamento della temperatura. Tutto ciò indispose Pacchiano, che era freddoloso e detestava gli spifferi. Gli angeli, intanto, manifestavano sul viso un’estasi orribile (si trattava di personale teatrale raccogliticcio), sempre in direzione del triangolo. Poi si misero a cantare. Anche quella non era arte loro. Gli uomini anziani, che avevano indossato una tunica, scambiavano opinioni tra loro, a voce altissima, in modo che il cavaliere non potesse non capire.
Prima anima beata: "Come si sta bene qui. Ho piacere che anche voi, caro notaio, siate salito in Paradiso. Ma non eravate un ignobile peccatore? Come avete fatto? Ditemi il vostro segreto per scansare il caldo infernale".
"Nessun segreto. È stato semplicissimo venire qui. Mi sono pentito della mia condotta abominevole, e, prima di morire, ho fatto testamento ed ho lasciato tutto all’arcivescovo ed alla chiesa: case, palazzi, vacche, buoi, asini ed asine."
Quello che rappresentava San Pietro agitò un mazzo di chiavi, fece l’occhiolino e mostrò, poi, che con una di esse si poteva aprire qualcosa. La più anziana e timorosa delle orribili dame trasalì. Aveva visto nel gesto di San Pietro qualcosa di profondamente osceno, quasi volesse aprire a tradimento la sua cintura di castità.
Spurtiglione si tolse il triangolo e tutti, che ne avevano le palle piene di stare fissi in una certa direzione, poterono rilassarsi. “Avete visto come si sta bene in Paradiso e come è facile arrivarci per un buon cristiano?” fece l’astuto monsignore.
Pacchiano non era un’aquila, ma capì. "Vedete, io ho un parente al quale è opportuno che lasci tutto. Sapete, è nelle tradizioni di famiglia."
"Siamo perfettamente informati, questo vostro familiare vive lontano ed è ricco di suo. Badate, invece, alla vostra anima. Guadagnate, come ora sapete, il regno dei cieli. O preferite finire tra i bollori dell’inferno?" Detto questo, Spurtiglione si congedò. Sarebbe tornato, questo era sicuro. Non mollava l’osso, fino ad esito positivo raggiunto. Fino a quel momento non c’era stato un solo vecchio, da lui “trattato” che non avesse lasciato l’intero patrimonio alla chiesa.
Ma, quella volta, c’era un infame traditore. San Pietro, o quello che lo rappresentava. L’anziano porco continuava segretamente a cadere nel peccato. Parlò della spedizione ad una sua carissima amica, Giacinta Purchia, tenutaria di un accogliente bordello.
Giacinta aveva il problema di costituire la dote alla figlia. Era questa lo scopo della sua vita. Naturalmente, la ragazza nulla sapeva. Anzi, era tenuta ben lontana dalla vita di peccato della madre. Studiava con profitto dalle orsoline.
Fortuna volle che le lavoranti di Giacinta avessero un senso dello spettacolo ben superiore alle mentecatte raccolte da Spurtiglione. Giacinta stessa, per via della sua professione di ruffiana, aveva una capacità di comunicare decisamente più grande del monsignore capocomico.
"Buonasera. Siamo le forze infernali" fu il saluto che Giacinta riservò all’interdetto cavalier Pacchiano, sulla soglia del suo appartamento.
Le diavolesse furono fatte accomodare in salotto, dove dettero una prova convincente di come si doveva stare agli inferi. Il rosso intenso delle loro facce e dei loro vestiti con coda dette, innanzitutto, una piacevole sensazione di calduccio al buon Olindo. Il vecchio, pur nelle sue precarie condizioni di salute, cominciò a sentire il fluire di certe sue energie nascoste.
Giacinta, nella sua antica sapienza di mezzana, sapeva che il vertice del piacere era dato dal contatto con un caldo intenso. In buona sostanza, l’uomo, nelle sue parti più intime, doveva essere portato a cottura moderata. Perciò le ragazze della Purchia dovevano provenire da zone paludose ed essere preda di febbri malariche. La donna, poi, considerava il chinino come una creazione di forze malvagie, contrarie al piacere supremo.
Un assaggio delle punizioni infernali fu riservato ad Olindo dalla ragazza più ricercata dell’ospitale casa di Giacinta, Isolina. La giovane proveniva dalle peggiori zone fangose intorno al Po, dove le infezioni malariche erano spaventose. In preda alla febbre terzana, Isolina, strettamente avvinghiata a Olindo Pacchiano, gli diede una convincente prova delle bolgie più infuocate. Le ci volle il meglio della sua arte, ma, alla fine, la febbricitante diavolessa riuscì, finalmente, a far mischiare all’anziano signore affari e vita privata. Alla fine quello capì che i suoi tori e i suoi asini non avevano mai lavorato per lui, ma per il loro piacere.
"Vuoi tu scendere negli inferi?" gli chiese alla fine l’infernale Giacinta. La risposta era ovvia. Ma c’erano delle formalità. Bisognava fare testamento nel modo corretto.
Fu così che una ragazza ebbe una dote ed un monsignore il primo cocente smacco della sua vita.
Allo Spurtiglione che, con la sua compagnia, si recò a fargli nuovamente visita, Pacchiano, abbassando i pantaloni, mostrò, dolorante ed orgoglioso, le sue vergogne. Esse apparvero di un bel colore rosso, lievemente ustionate, come si conveniva ad una prolungatissima mezza cottura.
"Mi dispiace, ho già firmato per le forze infernali."