Pietranuba
da "Asporti non autorizzati"
Si diceva che Giacinto fosse figlio di una janara, una strega, e che la madre lo avesse abbandonato nella selva. Lì, nei boschi, il ragazzo sarebbe stato allevato dagli animali selvatici. Questo, almeno, erano le voci che correvano nel paese di Pietranuba. Il villaggio era abbarbicato in uno dei punti più inaccessibili dei monti dell’Irpinia, che svettava al di là delle nuvole ed era collegato al resto del mondo da uno stretto ponticello, il ponte delle chiaie, che scavalcava un’aspra vallata.
Un anziano stregone era ritenuto essere ora Giacinto. Tutto induceva a crederlo, il comportamento, l’aspetto, finanche un certo odore che sapeva di erbe, di quelle che servono per produrre incantesimi e fatture. Al suo passaggio, la gente affrettava il passo e si segnava, il parroco aspergeva acqua santa. Anche se, in segreto, qualcuno si recava nella sua casupola, nella selva, quasi di fronte al ponte delle chiaie, per chiedere il suo intervento, facendo appello alle magie delle quali si riteneva più che capace.
A causa della sua vita selvatica, Giacinto aveva un intenso rapporto con gli animali dei boschi, ne conosceva il loro segreto linguaggio. Bastava un cenno, un suono, un verso, e i lupi e le linci si accucciavano, i cinghiali si ammansivano.
Intensa anche era la relazione che riusciva a stabilire con i gatti. In particolare, da due di essi, Amon e Lia, era costantemente seguito. Il suo animo rustico, avvezzo a scandagliare i più sottili sussurri della natura, e una costante osservazione lo avevano posto in una posizione privilegiata nei confronti dei mici. Intratteneva un dialogo costante con essi e riusciva ad ottenere risultati strabilianti da quel rapporto. Così Amon e Lia riuscivano a percorrere, mantenendosi in costante equilibrio, fili metallici che erano disposti a non breve altezza dal suolo. Ma dove Amon e Lia superavano le abilità di ogni gatto conosciuto era nel muovere con destrezza le zampe posteriori ed azionare un mulino in miniatura, costruito sapientemente da Giacinto, che, pur piccolissimo, era in grado di produrre farina di grano e di castagne.
Ciò ed altre cose portentose facevano i gatti, non per costrizione, ma per gioco che iniziavano ed abbandonavano quando a loro pareva. Per il resto erano liberi di scorrazzare e di ruzzare liberi per il paese e le selve. Lia era la più sconsiderata, si lanciava in avventure, a volte senza pensare ai rischi che correva. La scapestrata finì così bloccata, un giorno, in un burrone in cima ad un albero. Fu per l’intervento provvidenziale del giovane Pietro, che a sua volta rischiò la vita, che riuscì a uscire indenne da quella brutta avventura.
Giacinto non amava intratteneva relazioni con il genere umano, ma nel caso di Pietro, mosso da viva riconoscenza per aver salvato la gatta, fece un’eccezione. Il vecchio stregone, appoggiandosi a un bastone da pastore, si fermava spesso a parlare con quello che era diventato il suo unico, giovane amico.
Don Alfonso, infaticabile sindaco di Pietranuba, da tempo si arrovellava. Desiderava che il re e la regina visitassero l’antico e gradevole borgo di cui era primo cittadino, ammirassero l’incomparabile paesaggio montano che si godeva da esso e che fossero alloggiati nell’antico castello. Le comunicazioni erano però difficili, l’ultimo tratto di strada era, a dir poco, impervio. Logico pensare che, alla fine, i regali personaggi avrebbero scelto di visitare altre località, più facilmente raggiungibili. A meno che non ci fosse un motivo forte che giustificasse il viaggio.
Una notte il sindaco di soprassalto e disse con voce tonante. “Ho trovato.”
Il motivo forte era Giacinto e i suoi gatti. In quale parte del regno e anche di tutti quelli vicini, e diciamo pure, in quelli di tutto il mondo, era possibile assistere ad esibizioni tanto insolite? Sarebbe stato un gioco convincere le loro maestà a venire, illustrando la specialità di quegli spettacoli. Il problema era in casa. Come si sarebbe potuto convincere Giacinto a far esibire i suoi gatti. Per lui, il percorso sui fili, l’azionamento del mulino e molte altre diavolerie erano un gioco per far divertire i gatti, non per far deliziare gli esseri umani. I mici, poi, non agivano a comando, ma come e quando piaceva a loro.
Il problema era, quindi, ottenere il consenso di Giacinto. Ma chi avrebbe potuto chiederglielo? L’unico in rapporti più che amichevoli era il salvatore di Lia, Pietro.
La vita è fatta di dare e di avere. Pietro era sì disponibile, anche non nascondeva la temerarietà dell’impresa, ma, per agire desiderava qualcosa. Quel qualcosa era Ersilia, la figlia del sindaco. A più riprese Pietro aveva chiesto di averla in sposa, ma ogni volta il padre aveva risposto:
“Non puoi averla, è troppo giovane.”
“Ma sua madre, vostra moglie, si è sposata quando era ancora più giovane di Ersilia. Io la amo, e anche lei mi ama.”
“Ti ama perché le hai fatto fare un incantamento dal tuo amico stregone. Non se ne parla proprio.”
In effetti, don Alfonso non aveva niente da dire sull’onestà e laboriosità di Pietro, ma la sua decisione era offuscata da rancori per vecchie questioni per confini tra proprietà con il padre dell’innamorato di sua figlia.
Alla fine il sindaco, per superiori questioni di stato, per così dire, era stato costretto a cedere e si era anche fissata la data delle nozze.
Ora era in ballo la questione più difficile, convincere Giacinto. Pietro lo trovò di fronte al ponte, nella solita postura, piegato a reggere quasi il mento con il bastone da pecoraio.
Le comunicazioni, come già detto, tra la capitale e Pietranuba, data la situazione geografica del paese, che lo poneva quasi fuori dal mondo, erano più che precarie. E Giacinto sosteneva che in quel modo, scrutando l’orizzonte riusciva a percepire le notizie su quello che avveniva anche molto lontano.
Pietro parlò e parlò, l’altro continuava a fissare davanti a sé vedendo cose che altri non potevano percepire. Passati lunghi momenti, alla fine Giacinto disse:
“Chiederò ai gatti se sono disponibili, in piena loro libertà.”
Lia e Amon, attraverso vie misteriose, conosciute solo dallo stregone, diedero il loro assenso.
Il sindaco si mise subito in attività e, armato delle migliori caciotte, si recò nella lontana. Fece dono dei gustosi e rinomati formaggi al duca di Pietranuba, Gerardo Pazzotti. Il nobile, stanco di vivere tra monti inaccessibili, aveva lasciato da tempo il paese e aveva regalato il castello di famiglia ai suoi antichi sudditi. Don Gerardo ricordava di Giacinto e dei suoi gatti portentosi ed accettò di buon grado di intervenire presso il cerimoniere reale, suo buon amico.
Vi furono fitti conciliaboli nella cancelleria e, alla fine, vennero investiti della questione la regina e il re. La giovanissima regina, malgrado l’età acerba, si mostrava già donna autorevole e di carattere fermo, ma in lei continuavano a persistere giovanili effervescenze. Non poteva non essere attratta dallo spettacolo che le veniva prospettato. Convinse il re suo marito, ed insieme decisero che Pietranuba sarebbe stata una tra le tante visite che erano programmate a città e villaggi del loro grande e prospero regno. Tenendo conto di questi numerosi impegni fu possibile stabilire solo una data lontana per il soggiorno a Pietranuba, precisamente un giorno sul finire dell’estate dell’anno 18...
Furono giorni di duro lavoro. L’intera popolazione lavorò con grande fervore, nessuno si sottrasse, neanche anziani e bambini. Ci furono pulizie generali, fin nei più recessi anfratti. Quasi quasi sembrò che anche le pietre del castello dovessero essere lucidate. Furono innalzati archi di trionfo, appesi striscioni di benvenuto, sistemati tappetti, sparsi fiori dappertutto. E il gran giorno, finalmente, arrivò.
Ognuno indossava il vestito della festa, il sindaco aveva finito di limare il discorso che avrebbe rivolto agli illustri ospiti. Furono sistemati gli attrezzi di scena dei gatti. E finalmente arrivò Giacinto con i suoi amici a quattro zampe. L’uomo recava una specie di otre che conteneva un vino di more di sua produzione. Invitò i presenti a berlo. La buona gente ebbe attimi di esitazione. Non si sa mai quale intruglio può preparare uno stregone. Ma sciolta l’iniziale ritrosia, furono fatti circolare dei boccali e i pietranubesi cominciarono a bere. D’altronde non si poteva contrariare chi era l’artefice principe dello spettacolo che aveva attirato i reali nel paese.
Un torpore improvviso si impadronì dei paesani. Tutti ebbero il tempo di stendersi per terra, senza rovinare al suolo. Pietro ed Ersilia giacevano abbracciati. Al sindaco scivolò dalle mani il foglio del discorso che avrebbe dovuto pronunciare.
Giacinto guardò con tristezza e disse:
“Ho guardato all’orizzonte, il re e la regina non verranno oggi. Vi risparmio l’ansia dell’attesa del loro arrivo.”
Subito dopo, lo stregone, seguito dai fedeli amici, si recò al ponte. Assunse la solita posizione, seduto su un masso con la testa appoggiata sul bastone da pastore. Parlò ora ai gatti. “Lupi famelici e sanguinari, non come quelli che io ammansiscono con uno sguardo, si sono avventati sulla capitale, essi mordono e devastano. Aspettiamo tempi migliori per svegliare quelli che dormono e attendono una visita.”
Passarono gli anni, i decenni. Il ponte crollò. Una fitta vegetazione nascose quei luoghi e di Pietranuba si perse anche il nome. Anche i terremoti infierirono. Scossa dopo scossa, le case e il castello crollarono. Quelli che aspettavano il re e la regina di un regno ormai perduto, di terre non più felici, erano ancora vivi, anche se immersi in un sonno profondo, o, invece, la loro attesa, come la loro vita era finita per sempre?
Davanti all'ammasso di pietre nascosto da cespugli spinosi, che era una volta un ponte, c’è una roccia strana, che, a guardar bene, sembra l’effigie, di un uomo seduto, appoggiato a un bastone, che scruta l’orizzonte in cerca di chissà cosa. Accanto due agili pietre ricordano due gatti accovacciati.