Il presepe

da "Il messia meccanico"


Un potente principe russo, sul finire del '700, ebbe ad ammirare la bellezza e la poesia del presepe napoletano. Se ne incapricciò, addirittura. Chiese che alcuni artisti, creatori di figure e di paesaggi, andassero in Russia per dar vita ad una manifattura locale.

Il sovrano di Napoli, pressato dalla diplomazia del grande paese slavo, dovette accontentare il principe, e gli inviò un gruppo di artefici. Non erano i migliori, ma pur sempre raffinati. Essi furono allettati da generosi compensi, che non vennero mai corrisposti.

Ahimè, il principesco capriccio durò giusto lo spazio di un mattino. I napoletani si ritrovarono a Mosca con le famiglie, senza incarichi, senza soldi, in un paese che, per via delle differenti tradizioni, non apprezzava il loro lavoro.

Fecero le loro brave rimostranze, ma, in risposta, furono trattati bruscamente. Non ottennero neanche il danaro per poter rientrare a Napoli. A stento, tra mille traversie, riuscirono ad arrivare in Crimea, dove il clima era più sopportabile.

Si trasformarono in contadini.

Con il passar del tempo, costituirono un popoloso gruppo, che non abbandonò mai la lingua dei padri. Questa, però, finì con l'acquistare cadenze ed influssi slavi, con un risultato buffo e simpatico.

Le antiche tradizioni artigianali non vennero perse, anzi. I napoletani continuarono a creare figure e presepi, ma solo per il loro diletto. Il capo del villaggio fu sempre l'artista più bravo.

Passarono i decenni. La comunità ebbe molti momenti di dolore, partecipando alle vicende tragiche della Russia. Il sollievo dalle tribolazioni quotidiane era tuffarsi, a sera, nella loro arte, che veniva insegnata dal padre al figlio.

Venne la guerra. La Russia fu invasa da truppe straniere, anche da armate italiane. A conflitto finito, Stalin la fece pagare cara a certe minoranze. Erano tutte incolpevoli. Magari si erano staccate da centinaia di anni dalla madrepatria. Ma la terra d'origine aveva avuto la colpa di aver violato con le armi il grande territorio slavo.

Si approssimava il Natale. Fervevano i preparativi, tra i napoletani di Crimea. Il venticinque dicembre sarebbe avvenuta la premiazione delle figure e dei presepi più belli.

All'improvviso, nel borgo, fece irruzione la polizia. Ai napoletani fu permesso di portare con loro solo poche cose. Furono fatti salire su un treno merci.

Viaggiarono giorni e giorni, vivendo come bestie, nutrendosi solo del poco che veniva dato loro. Il freddo si faceva sempre più intenso, a mano a mano che si addentravano nel centro della Siberia. Molti anziani e bambini morirono per il gelo e la malnutrizione.

La vigilia di Natale il viaggio ebbe termine. Il convoglio si fermò in una desolata landa bianca. C'erano solo binari e, poi, niente. In modo brutale, i poveri viaggiatori furono fatti scendere, senza poter portare nulla.

Il treno ripartì. Degli armati sorvegliavano che nessuno risalisse sui vagoni.

I napoletani non ebbero alcuna reazione.

Cominciò ad infuriare la tormenta. Si raccolsero uno addosso all'altro, per non far disperdere il calore.

Per tutto quel tempo, Francesco, il capo degli artefici e, quindi, massima autorità del gruppo, era rimasto vigile ed aveva ben esaminato la situazione.

Parlò: “Fratelli miei, non c'è via di scampo. Conosco bene questa zona: per decine e decine di chilometri non c'è un riparo, una capanna, nulla. Ci hanno portati qui per farci morire in modo orribile. Con questo freddo è questione di pochissimo tempo. Si aspettano che vaghiamo impazziti nella neve, per morire da disperati. Noi, invece, moriremo con dignità, dando l'ultima testimonianza della nostra arte. Sarà Natale e Pasqua. Nessuno dei nostri predecessori era arrivato a tanto.”

Gli altri capirono, anche le madri. Trattenendo lacrime di ghiaccio, annuirono e strinsero al seno i loro figli.

Francesco si appoggiò ad un bastone immaginario. Accanto a lui, la moglie Antonia si accoccolò, come seduta, reggendo in braccio l'ultimo nato, Ciro, un bimbo di pochi mesi.

Rita, la figlia sedicenne di Francesco, sollevò le braccia al cielo, in modo che il mantello cadesse a formare due ali. Era l'angelo dell'annuncio.

Gli altri si disposero intorno a quello che era il nucleo centrale della natività. Alcuni, inginocchiati, con un immaginario cappello tra le mani, adoravano il santo bimbo. C'era, poi, chi gonfiava le gote e disponeva le mani a suonare strumenti a fiato, chi tirava inesistenti animali riottosi. I più, infine, avevano le palme delle mani verso il cielo. Recavano i doni, delle loro vite.

Non si udì un lamento.

Il presepe vivente durò poco, perché le buone anime furono finalmente portate via, in cielo. 

Quello che rimaneva nella steppa desolata, scolpito nel ghiaccio, era il più tragico e grande presepe napoletano che si fosse mai visto.