Il topolino bianco
da "Il messia meccanico"
Il ritaglio di giornale era da giorni sulla scrivania del famoso scrittore di libri per ragazzi. L'uomo era stato molto colpito dalla notizia di stampa. Forse ne poteva ricavare un racconto. Poi gli erano venuti molti dubbi.
Il resoconto giornalistico aveva come protagonista un bambino napoletano di religione ebraica, Sergio, deportato in Germania durante l'ultima guerra. La vicenda era terribilmente crudele. Lo scrittore si chiedeva ora come ne avrebbe potuto ricavare una storia accettabile per i suoi piccoli lettori. I suoi racconti avevano sempre un lieto fine, ma lì, nella realtà di tanto tempo prima, l'epilogo era stato tragico.
Nella testa dello scrittore per giorni e giorni c'era stato un tira e molla: “Lo scrivo, non lo scrivo...”
Un mattino, però, la questione si risolse da sola. La finestra dello studio dell'uomo fu lasciata aperta dalla domestica. Sopravvenne una furiosa tempesta di vento.
Il ritaglio di giornale se ne volò via, insieme a molte altre carte che erano sulla scrivania.
Stranamente, lo scrittore non si arrabbiò per la devastazione del suo tavolo di lavoro. Vide l'accaduto come un segno del destino. “Non scriverò più il racconto. Era una storia imbarazzante. Mi stava scombussolando la vita” disse a se stesso. Finalmente, era sollevato.
Quel giorno mangiò di buon appetito.
Il ritaglio di giornale si staccò dal gruppo di fogli che erano volati insieme. Prese diverse direzioni nel cielo di Napoli, poi si orientò verso una destinazione precisa. In breve, atterrò su un prato circondato da alberi, nel Bosco di Capodimonte, proprio di fronte al vecchio palazzo reale. Intanto, il vento continuava a soffiare, ma, evidentemente, il pezzo di carta aveva deciso che quel prato fosse il luogo ideale dove atterrare.
Il rettangolo stampato, nella sua essenza fisica, non durò a lungo. Il sole, la rugiada e la pioggia lo dissolsero. La sua morte non fu, però, inutile. I caratteri, le parole scritte si sciolsero, come fa lo zucchero nell'acqua, nel terreno circostante. Le parole impregnarono la terra. L'erba e le piante, che traevano il nutrimento da quella terra, assorbirono le parole. Esse arrivarono in profondità fino ad una sorgente sotterranea, che risaliva in superficie per dissetare gli animaletti del bosco. Così, le parole del ritaglio arrivarono anche a quelle creature.
Lo scrittore famoso aveva rinunciato. La natura si rese conto che la storia del bimbo non poteva passare sotto silenzio.
Passarono i giorni. Gli alberi, che facevano corona al prato dove si era posato il ritaglio, misero una nuova corteccia. Non si trattava, però, del loro consueto vestito. Erano cortecce speciali, sulle quali la mano della natura aveva inciso pagine della storia di Sergio.
Gli animaletti, dal canto loro, non se ne stettero inoperosi. Gli scoiattoli, i cani ed i gatti randagi, dimenticando antiche inimicizie e rivalità, cominciarono a lavorare insieme, nel prato.
Scavarono giorno e notte. Furono aiutati da milioni di lombrichi, che ruppero le zolle più dure, e resero soffice la terra.
Il lungo lavoro di scavo abbassò il livello del prato, per portare alla luce, al suo centro, un grosso masso bianco. Il posto diventò più bello di prima. Bastò, poi, la rugiada di un mattino perché lo spazio, dove si era lavorato, venisse ricoperto da un'erba morbida e compatta.
Venne l'ora dei picchi. Gli uccelli ricevettero una sorprendente forza nei loro becchi. Furono così in grado di scolpire la pietra. Il grande sasso bianco fu accuratamente levigato dai volatili.
I picchi, poi, completarono in poche ore la parte più delicata del loro lavoro. L'opera fu davvero ammirevole, perché incisero, con grande abilità, nella pietra bianca, l'immagine di un topolino bianco.
Da un vecchissimo ritaglio di giornale, che aveva concimato la terra, era nato un monumento, nel Bosco di Capodimonte. Esso era formato da quel sasso bianco su cui era inciso il topolino e da sei alberi, che facevano corona al prato.
Sulla nuova corteccia di ogni albero c'era una pagina della storia di Sergio.
Gli alberi-pagina ed il sasso erano il monumento al bambino.
La storia cominciava dal primo albero-pagina a sinistra del masso:
“Io ero il topolino bianco di Sergio. Fui contento quando fui portato a casa sua. Diventammo subito buoni amici. Che bella vita facevamo! Sergio teneva aperta la porticina della mia gabbia. Lì dentro stavo solo il tempo necessario per mangiare, dormire, salire su una scaletta, girare una ruota e fare altre esibizioni, per rallegrare il mio padroncino di sette anni. Per il resto, ero libero di girare nella stanza, di entrare in una manica della camicia di Sergio e di uscire dall'altra. Il bambino rideva, le mie zampettine e lo strusciare del mio pelo gli facevano solletico.
Non ci preoccupavamo di quello che succedeva al di là della stanza. Poi venni a sapere che fuori succedevano cose terribili. C'era una guerra devastante. Degli uomini volevano impadronirsi del mondo intero, ed avevano già invaso molti paesi, portando morte e distruzione. Proclamavano di essere i più forti ed intelligenti di tutti. Essi chiamavano se stessi nazisti e venivano dalla Germania.
Percepii preoccupazioni nei familiari di Sergio. Essi erano di religione ebraica. I nazisti avevano cominciato ad arrestare e ad uccidere gli ebrei, accusandoli di essere i responsabili di tutti i problemi dell'umanità.
Sono solo un povero topolino bianco, ma questa cosa non l'ho mai capita. È come se noi avessimo fatto carico dei guai della nostra vita ai topolini grigi o, magari, a quelli rossi. E, poi, li avessimo anche arrestati e uccisi.
Si creò un profondo legame tra me e Sergio. Il bambino era stato abbandonato dai suoi amichetti di religione diversa. Io ero il solo piccolo con il quale potesse giocare. Mi confidava i suoi segreti e i suoi sogni. "Da grande diventerò un potentissimo mago - diceva - e sarò capace di sollevarti da terra, di farti girare in aria con la forza che sprigionerò da un mio dito."
Ero meravigliato, perché, effettivamente, uno strano calore, una strana elettricità cominciava a provenire dalle sue mani ed a farsi sempre più forte.
Ricordo che Sergio stava facendo uno dei suoi esperimenti, e mi stava grattando delicatamente il pancino con un dito. Sentii un rumore alla porta. Potetti vedere stivali neri lucidati a specchio. Il dito di Sergio venne bruscamente allontanato dal mio pancino. Il bambino strillava.
Impaurito, scappai nella mia gabbia.
Passò la notte. Nessuno venne a portarmi acqua e cibo. C'era un grande silenzio.
Timidamente, uscii dalla gabbia, e, poi, dalla stanza. L'appartamento era deserto. Sergio ed i suoi parenti erano stati arrestati dai nazisti.
La porta d'ingresso, sfondata, permetteva l'ingresso di chiunque. Nel momento in cui facevo questa constatazione, apparvero un paio di scarpe eleganti. Qualcuno disse: "Toh, un topolino bianco. Anche loro scarseggiano in questi tempi di guerra. Questo sarà utilissimo per i miei esperimenti."
Due mani forti mi afferrarono. Svenni per la paura.
Mi ritrovai in una piccolissima gabbia nel laboratorio dell'università. C'era un altro topolino come me, in un'altra scatola di rete, che mi parlò con grande tristezza:
"Qui siamo topi da laboratorio. Fanno crudeli esperimenti su di noi. Dicono per il progresso della scienza. Ci tagliano, ci aprono, ci trasmettono i virus delle peggiori malattie. Non si curano del nostro dolore, delle nostre atroci sofferenze. Tanto, dicono, siamo solo animali da laboratorio. Se non moriamo da noi, quando siamo carcasse inservibili, con appena un filo di vita, ci affogano."
Io, il topolino bianco, l'amico di Sergio, cominciai ad essere scosso da brividi inarrestabili. In preda al terrore, piansi e mi disperai. Non riuscii a dormire quella notte.
Alle prime luci dell'alba, spossato, finalmente chiusi gli occhi, nel buio fitto del laboratorio. Non sapevo se dormivo. All'improvviso, pur avendo gli occhi chiusi, percepii una luce vivissima. Da quella emerse il viso familiare di Sergio. Il bambino era magro, visibilmente sofferente, ma si sforzò di sorridermi. Mi parlò:
"Sono in Germania, sono stato separato dai miei familiari. Insieme ad altri diciannove bambini sono stato portato in una scuola di Amburgo."
"Ti fanno studiare?" chiesi perplesso.
Sergio non rispose. La sua immagine svanì.
Il medico che mi aveva catturato, professore illustre dell'università, si era ammalato. Perciò io ed il mio compagno di sventura eravamo temporaneamente stati lasciati in pace. Però la paura, il terrore non ci abbandonavano. Sapevamo che il professore si sarebbe ristabilito, sarebbe tornato nel laboratorio e ci avrebbe straziati.
Sergio si metteva in contatto con me ogni notte. Non volevo rattristarlo, ma, da piccolo topolino bianco quale ero, mi abbandonai, e rivelai il triste destino che mi era stato riservato.
Sergio trasalì e, per la prima volta da quando avevamo quei magici contatti, a distanza di migliaia di chilometri, pianse.
"Abbiamo la stessa sorte! Anche io sono un bambino da laboratorio. Hanno tagliato la mia carne. Hanno introdotto i bacilli di una terribile malattia..."
Sergio aveva la febbre altissima, delirava. Ero atterrito. Per i nazisti, dunque, la vita di un bambino ebreo non valeva niente, era come quella di un topolino bianco.
Una forza irresistibile mi portò a girare in cerchio, come se sotto di me ci fosse una ruota. Salii e discesi su per una scaletta inesistente. Poi mi capovolsi sulla schiena.
Avvertii il calore di un dito che toccava delicatamente il mio pancino.
Separati da migliaia di chilometri di distanza, ripetemmo i nostri allegri giochi di un tempo.
Rividi il volto di Sergio. Nella sua maschera di dolore e sofferenza, riuscii a cogliere un impercettibile sorriso.
Il professore era guarito ed era tornato al suo terribile lavoro. Io ed il mio compagno lo vedevamo fischiettare, mentre affilava i suoi coltelli e riempiva le sue provette con sostanze che procuravano malattie.
Intanto, a migliaia di chilometri di distanza, il carnefice di Sergio, il medico che faceva altri esperimenti, fotografava il mio povero amico, il bambino ebreo, e le piaghe che gli aveva procurato.
"Gli esperimenti sono perfettamente riusciti" disse il medico ad un suo assistente di scientifiche torture. "Possiamo eliminarlo, non ci serve più."
Persi, improvvisamente, coscienza. Nel momento preciso in cui Sergio veniva ucciso, vidi, come in un sogno, la sua figura, questa volta sfuocata.
Percepii i suoi ultimi pensieri. Non era concentrato sui suoi assassini, non li malediceva.
"Do la mia vita in cambio di altri esseri viventi. Che loro non soffrano come me."
Un doppio clic mi fece tornare in me. Le gabbie vicine, che imprigionavano me e l'altro topolino bianco, si aprirono.
Fuggimmo e ci salvammo.
Proprio in quel momento, il professore, ultimati i suoi terribili preparativi, si avvicinava al luogo dove eravamo stati imprigionati, portando un coltello affilato per tagliarci ed una provetta con i bacilli della malattia che aveva procurato tanto male a Sergio.”
Questo era scritto sui sei alberi-pagina. Sulla corteccia di un settimo, poco distante dai primi, apparve, una notte, un'iscrizione. Diceva semplicemente: “Ricordate!”
Qualcuno sostiene che, in certe notti, il topolino inciso sul sasso bianco si animi. Pare che schizzi in aria e muova instancabilmente le zampette per girare una ruota invisibile o salire e scendere su una scaletta immaginaria.
Ad un certo punto, l'animaletto si ferma e gira le zampette verso il cielo. Allora, il pelo si arruffa, come se un ditino invisibile stesse accarezzando la minuscola pancia del topolino bianco.