11 ottobre 1492
da "Il messia meccanico"
Nella sagrestia della chiesa di Santa Lucia in Napoli, nascosti da un pesante armadio pieno di paramenti sacri, sono conservati due dipinti. Riproducono lo stesso soggetto, ma impiegano stili completamente diversi.
Il primo è di scuola rinascimentale, il secondo usa in maniera magica la tecnica dei graffiti e, pur essendo stato realizzato alla fine del 400, anticipa il lavoro di certi maestri di cinquecento anni dopo.
Si tratta del ritratto di una donna, raffigurata in primo piano, con alle spalle un paesaggio, che di certo non corrisponde a nessuna parte di Napoli. La figura femminile è una bellissima ragazza che, dai tratti, si direbbe appartenere alla stirpe degli indiani d'America.
Quando i quadri erano in mostra, fino a duecento anni fa, erano oggetto di particolare devozione da parte, specialmente, degli artisti. I pittori avevano eletto la rappresentazione della ragazza a loro protettrice, definendola la doppia Madonna Patanella, per via del suo adorabile naso a patatina.
L'origine di quelle opere, oggi dimenticate anche dal popolo del quartiere Santa Lucia, è in una storia al di fuori del comune, che ha inizio in una terra molto lontana.
Era l'11 ottobre 1492.
Nessuno degli uomini e delle donne che erano nella grande pianura sapeva niente di quella data. Il tempo veniva calcolato in un'altra maniera.
Nessuno di loro fu a conoscenza, poi, che, il giorno successivo, la loro terra, quell'immenso continente, conosciuto successivamente come America, sarebbe stato scoperto da Cristoforo Colombo.
Il sole stava per tramontare. Degli uomini aspettavano che si facesse sera. Quando essa arrivò, iniziò qualcosa che poteva far pensare ad una celebrazione o ad un rito.
Gli uomini si disposero a cerchio intorno ad una capanna a cono. Erano seduti per terra ed avevano davanti dei tamburi. Si sentì un urlo secco provenire dall'interno della capanna. Era un segnale convenuto, perché, subito, si levò alto il rullio dei tamburi.
Come per magia, la capanna, insieme a quelli che ospitava, cominciò a salire verso l'alto, con un moto lento ma continuo. Arrivata all'altezza di un grande albero di cento anni, la capanna si dissolse nel nulla. I tamburi continuarono a rullare a lungo.
Poco più lontano dal cerchio, nel momento in cui la tenda e i suoi occupanti sparirono, alcune ragazze si agitarono come per salutare qualcuno che partiva per un lungo viaggio.
Delle innumerevoli tribù, che hanno popolato l'America, quella dei Pittori è forse la meno conosciuta. Ed erano proprio gli appartenenti al popolo dei Pittori che avevano celebrato il rito della capanna scomparsa, nella pianura.
La vita che conducevano i Pittori (chiamati anche, più tardi, Pennelli Colorati) non era dissimile, salvo che in un punto, dall'esistenza delle mille altre tribù della grande pianura. Essi erano nomadi. Seguivano le mandrie di bisonti. I bisonti fornivano cibo e pelli per vestirsi e per coprire le tende.
I Pennelli Colorati vivevano in armonia con la natura, che celebravano - e questa era la differenza con gli altri - con la pittura.
Dipingevano dappertutto, sulle tende, sugli alberi morti, sui grandi sassi, sulle pareti delle grotte.
Il capo tribù veniva scelto, oltre che per le sue doti di intelligenza, di forza e di coraggio, anche per le sue qualità di pittore. Si richiedeva, anzi, che egli fosse il più dotato, quanto a capacità artistiche.
In quel tempo, era capo della tribù un uomo saggio, buono e valoroso, chiamato Colore Vivace. Era un uomo tranquillo. In campo pittorico, però, diventava un altro: un appassionato artista di battaglie immaginarie, che dipingeva con colori accesi e violenti.
Colore Vivace era il personaggio più importante della comunità. Dopo di lui vi era lo stregone, Coda di Qualcosa. Tra i Pittori, lo stregone, oltre ad avere i ruoli tradizionali di sacerdote, medico e mago, aveva una funzione fondamentale, sconosciuta alle altre tribù, quella di preparatore dei colori. Nessun altro, tra i Pittori, era in grado di preparare colori per i dipinti, ricavandoli da minerali e da piante.
Coda di Qualcosa, il grasso stregone, era sempre pronto a soccorrere gli ammalati ed i bisognosi di aiuto, era amato da tutti. In special modo, dai ragazzi, anche perché era in grado di trasformarsi in qualunque specie di animale, con una simpatica particolarità. Finita la trasformazione e ritornato uomo, gli rimaneva giù, ben attaccata alla parte inferiore del corpo, la coda dell'ultimo animale del quale aveva assunto l'aspetto, che era diverso quasi ogni giorno.
Colore Vivace aveva un'unica figlia, Acquatinta. Pur essendo amante dei colori forti, il capo aveva scelto quel nome, perché gli faceva tornare alla mente la trasparenza e la purezza dell'acqua sorgiva. E come quell'acqua fu l'anima della bellissima principessa, che crebbe sana nella mente e nello spirito, coraggiosa, rispettosa della natura e innamorata dell'arte.
Nel giorno del dono delle penne, Acquatinta compì il suo quindicesimo anno di vita.
Due pensieri erano al centro dell'attenzione della ragazza, mentre celebrava i riti del giorno di festa. Le aquile delle montagne, grate al popolo dei Pittori che le avevano sempre rispettate e protette, portavano in dono le loro penne più belle, perché se ne adornassero il capo e i più importanti componenti della tribù. Come ogni anno doveva essere la figlia di Colore Vivace, la principessa Acquatinta, a ricevere i regali delle aquile.
Ma quali pensieri agitavano quella bella testolina? Il primo: era cominciato il periodo della vita nel quale le donne dei Pittori si innamoravano. Ma Acquatinta non vedeva intorno a sé la persona da amare per la vita.
Il secondo motivo che l'angustiava era legato all'arte. Più di ogni Pennello Colorato, più ancora del padre, amava la pittura. Ma era insoddisfatta. Quelli che le stavano intorno dipingevano con tecniche immutabili, stabilite dagli antenati. Non era concesso a nessuno di cambiare. La sua anima di piccola ribelle non accettava ciò. Voleva mutare qualcosa. Soprattutto voleva raffigurare le cose, le persone, gli animali così come essi erano, e non "piatti", a due dimensioni, come si faceva nella sua tribù. Voleva, cioè, che alle raffigurazioni pittoriche venisse data l'illusione delle tre dimensioni. Sentiva che da qualche altra parte si era arrivato a quel risultato.
Coda di Qualcosa, pressato da Acquatinta, era incapace, pur essendo bravissimo, di dare una risposta alle necessità di sviluppo artistico della ragazza. Inoltre, era molto attaccato alle antiche tradizioni.
Acquatinta, dal giorno dei doni delle aquile, diventò stranissima, distratta, sempre pensierosa, chiusa in un suo mondo.
Un giorno, la ragazza presentò al villaggio un suo dipinto. Era un bisonte magnifico, ritratto con una tecnica fino a quel momento ignota alla tribù. Sembrava, infatti, che il bisonte fosse lì per uscire fuori dal dipinto, per correre libero nella prateria.
Acquatinta non volle rivelare come era arrivata a quel risultato. Avrebbe mai potuto confessare che era il frutto dei suoi sogni? Strani sogni, quelli. Sogni ad occhi aperti.
All'improvviso, infatti, si sentiva estranea a tutto. Aveva la sensazione di trovarsi in un altro posto. Vedeva strane e grandissime capanne di pietra vicino a una grande distesa d'acqua e, poi, in lontananza, una montagna che sentiva terribile. E in alcune di quelle capanne si dipingeva, in maniera meravigliosa, proprio con quella tecnica che cercava. Poco più lontano dalle capanne di pietra, tra alberi e prati, vicino all'acqua, c'era la casa di un bellissimo giovane sui sedici anni. E con quello, mano nella mano, passeggiava nei sogni. Era il giovane di cui era innamorata. Con lui si poteva intendere a gesti, perché parlava una lingua completamente diversa dalla sua. Poiché, inoltre, anche il ragazzo conosceva l'arte, scambiava pensieri d'amore ricorrendo a disegni.
Furono numerosi quegli strani sogni ad occhi aperti. Sembrava proprio che, durante i fenomeni, i due giovani stessero realmente insieme e si amassero. Ciascuno donava qualcosa all'altro. Così, il giovane insegnava ad Acquatinta il modo con cui ritrarre le cose a tre dimensioni. Perciò Acquatinta aveva potuto dipingere quel bellissimo bisonte che aveva riscosso l'ammirazione della sua tribù.
Suscitando la sorpresa di Acquatinta, che non teneva in gran conto i modi artistici dei Pennelli Colorati, il giovane volle apprendere proprio le forme espressive della tribù.
Acquatinta confidò a qualcuno quei sogni bellissimi. Poiché si trattava di fenomeni straordinari, interpellò, ovviamente, lo stregone - mago della comunità.
Coda di Qualcosa rifletté a lungo, poi chiese:
“Quanto credi di amare quell'immagine di giovane che vedi nei tuoi sogni?”
“Più di ogni altra cosa al mondo.”
“Ebbene - disse Coda di Qualcosa - l'amore è un incantamento. Quelli che si amano sono maghi. Più l'amore è grande, più grande è la magia che ciascuno dei due può fare sull'altro o sull'altra. Nel vostro caso l'amore è immenso e vi fa vibrare, anche se non vi siete mai realmente sfiorati, anche se non comprendete i vostri linguaggi, anche se distanze immense vi separano.
Siete privilegiati. A volte due persone che potrebbero amarsi finiscono per non incontrarsi mai, ma non quando è in ballo l'amore immenso. L'amore immenso scende dal Cielo nel cuore di due esseri fortunati una volta ogni mille anni, e li fa incontrare ad ogni costo. Anche se solo nei loro sogni.”
Coda di Qualcosa conosceva ed applicava tutte le magie che aveva appreso dal precedente stregone, ma non si fermava lì. Studiava e ricercava nuovi incantesimi.
Il mago chiamava a raccolta tutta la tribù, quando inventava un nuovo incantesimo. L'ultimo che aveva ideato era stato considerato il più portentoso mai concepito dagli stregoni della grande pianura. Consisteva nel mettersi in una capanna e pronunciare delle parole magiche. Con quelle parole, la tenda e chi vi stava dentro scompariva. Il tutto riappariva dopo qualche istante, ma non nello stesso posto, bensì ad una distanza che il mago aveva indicato nelle sue parole magiche.
Non si seppe mai se Coda di Qualcosa avesse inventato il trasporto magico a distanza per caso o per favorire i due innamorati.
Naturalmente, Acquatinta vide nella scoperta dello stregone la risposta pratica ai suoi problemi. Poiché era molto risoluta, andò dal padre per chiedergli di partire, per incontrare subito il suo amato.
Colore Vivace non nascose alla figlia le sue preoccupazioni:
“Non so dove vai e quale gente incontrerai. Correrai dei pericoli. Parti, se questo è il tuo desiderio, ma fatti accompagnare, oltre che da Coda di Qualcosa anche da due guerrieri.”
Acquatinta aveva, però le idee ben chiare:
“Passi per il buon stregone. Lui sa azionare la magia e, senza di lui, non potrei ritornare indietro, se lo vorrò. Ma di farmi accompagnare dai guerrieri non se ne parla proprio. Il mio viaggio è alla conquista dell'amore e delle conoscenze che non abbiamo. I miei sentimenti e quelli del mio amato mi difenderanno da ogni pericolo.”
Dall'altro capo del mondo, nella città di Napoli, la sera dell'11 ottobre 1492 un avvenimento sorprendente ed eccezionale gettò nello scompiglio la principesca famiglia degli Odestefani.
Nei pressi del palazzo nobiliare di Santa Lucia, e precisamente nel grande e meraviglioso giardino, si materializzò una tenda a cono. Dall'interno di essa balzarono fuori una bellissima ragazza e poi un grasso uomo seminudo. Il secondo aveva un’aria inoffensiva, ma inquietante per via di una coda di scoiattolo, che gli penzolava là dove finiva la sua schiena.
L'apparizione gettò nello sgomento tutti gli abitanti del palazzo, nobili e servitori, tranne uno.
Il giovane Stefano degli Odestefani era stato visto dal pomeriggio passeggiare nervosamente nel giardino. Sembrava che aspettasse qualcuno. Quel qualcuno doveva essere arrivato, perché egli corse felice verso la tenda, per abbracciare una ragazza di rara ed insolita bellezza.
Gli appartenenti alla famiglia degli Odestefani si erano segnalati come uomini d'armi e, più di recente, come abili esperti di commerci. Il vecchio principe, padre di Stefano, si era distinto in tutte e due le cose. Vantava, inoltre, una grande esperienza di vita, avendo girato tutto il mondo conosciuto. Il contatto con genti e paesi gli aveva fatto acquistare un grande senso di tolleranza. Si era sposato non giovane ed ora si trovava, gravemente ammalato ed al termine della sua vita, ad avere un figlio di soli sedici anni. La madre di Stefano era morta nel darlo alla luce. Ed il cruccio del principe padre era che avrebbe lasciato, di lì a poco, il ragazzo in balia della sua seconda moglie, una donna rivelatasi cattiva e crudele.
Stefano non voleva diventare né uomo d'armi né di commerci. Era attratto solo dalla natura e dalla pittura. Ma anche in campo artistico non si comportava da persona ragionevole. Non amava le tecniche e i sistemi che erano stati elaborati dalle centinaia di artisti che avevano onorato Napoli.
Il padre chiamò un famoso pittore ad esprimersi sui lavori del figlio. Quello fu molto perplesso.
“Il figlio vostro dimostra intelligenza, uso sapiente dei colori, ma rifiuta l'insegnamento dei maestri. Dipinge come un folle animato dalle forze selvagge della natura.”
Nonostante quel giudizio e le rimostranze della sua seconda moglie, il principe padre, pur borbottando ogni tanto qualcosa, lasciò fare al figlio quello che desiderava.
Appena aveva compiuto sedici anni, Stefano degli Odestefani diventò, agli occhi di tutti, ancora più strano e più pazzo di prima. A momenti, si estraniava completamente dal mondo, sembrava che vedesse e parlasse a gesti con qualcuno, addirittura che baciasse qualcuno.
Nello stesso momento in cui Acquatinta presentava alla sua tribù il bisonte ritratto nelle tre dimensioni, Stefano dipingeva un bufalo nello stesso modo in cui l'avrebbe raffigurato un appartenente alla tribù dei Pennelli Colorati.
La matrigna, i servitori di casa Odestefani e tutti i napoletani nobili, che poterono incontrare Coda di Qualcosa, non fecero mistero di disprezzarlo profondamente. Lo stregone non si curava minimamente del loro atteggiamento. Era troppo occupato. Passava giornate intere nel parco, alla ricerca di piante o di erbe, dalle proprietà curative, da aggiungere ai suoi rimedi. Passava, inoltre, le notti a trasformarsi in animali che non aveva mai visto prima. Dopo molte prove, finì con il preferire i mutamenti in cavallo ed in asino.
La principessa matrigna schiumava addirittura di rabbia quando lo stregone, reduce da una trasformazione equina, girava beato la coda a grande velocità, per scacciare le mosche.
I popolani di Santa Lucia, superati i primi attimi di sbigottimento, per l'aspetto davvero singolare dell'uomo, diventarono grandi amici di Coda di Qualcosa.
I "luciani" erano da secoli smaliziati sulle magie, che da sempre si erano praticate in quei luoghi incantati. Delle trasformazioni dello stregone, si curarono, quindi, solo fino a un certo punto. Si limitarono a chiamare il simpatico nuovo amico "Compare Ciuccio", per la bella coda d'asino alla quale, da un po' di tempo, lo stregone era affezionato.
Acquatinta e Stefano, nonostante le differenze di linguaggio, si comprendevano, così come avevano fatto durante quegli strani sogni ad occhi aperti. Mano nella mano, si guardavano negli occhi e comunicavano i loro sentimenti. Ricorrevano ai gesti oppure a disegni fatti con un carboncino.
Acquatinta tratteggiò due giovani alberi ed i loro rami che si abbracciavano. Poi fece un sole enorme.
“Il nostro amore è grande” decifrò subito Stefano.
Col tempo, ciascuno insegnò all'altro parole della propria lingua. Così poterono anche parlare, usando, a piacere, uno dei due linguaggi.
A Stefano fu chiesto, più per cortesia verso la sua casata che per convinzione, perché erano conosciute le sue stranezze di pittore, di dipingere nella Chiesa di Santa Lucia. I preti, per stare sul sicuro, gli misero a disposizione una quasi nascosta parete della sagrestia. Stefano dipinse a modo suo Acquatinta, che, a sua volta, volle aggiungere il suo autoritratto, dipinto, questa volta, nel più puro stile rinascimentale. E furono quelle due opere ad essere chiamate, decine di anni dopo, la doppia Madonna Patanella.
Il principe padre stava sempre peggio. Trascorreva, ormai, gran parte del suo tempo a letto. Spesso chiedeva di vedere i due ragazzi. Li salutava con gioia, stringeva con forza le sue mani in quelle di Acquatinta e Stefano.
La matrigna, invece, che già odiava Stefano, non impiegò molto a detestare dal profondo dell'animo Acquatinta e, naturalmente, il sentimento che univa i due.
Un brutto giorno, il principe padre morì.
La matrigna non perse tempo. In breve, un gruppo di armati arrivarono a palazzo Odestefani. Essi e la donna crudele sorpresero i ragazzi e Coda di Qualcosa nel parco, intenti a dipingere.
La matrigna accusò subito i tre:
“Questi sono i colpevoli di stregoneria. Due selvaggi e quel pazzo furioso del mio figliastro. Sono responsabili degli atti di magia nera che ho indicato nella mia denuncia al magistrato. Arrestateli.”
Coda di Qualcosa fu più veloce delle guardie. Si trasformò in un baleno in un magnifico cavallo. Stefano vi salì in groppa insieme ad Acquatinta.
Il cavallo - che roteava rapidamente la coda, come la matrigna aveva visto fare a Coda di Qualcosa - scappò via con una velocità incredibile. Le guardie non capirono neanche quale direzione avesse preso.
I fuggiaschi cavalcarono a lungo. Si diressero verso una zona che Stefano conosceva molto bene, per esservi stato da bambino con il padre. Era una vasta area alle pendici del Vesuvio, non lontana dal mare, piena di boschi.
I due giovani passarono lunghi giorni felici, cacciando, perfezionando la conoscenza delle due lingue, semplicemente guardandosi con gli occhi, e comunicando così i propri sentimenti.
Coda di Qualcosa, abbandonata la trasformazione in cavallo, aveva assunto quasi permanentemente l'aspetto di un asino. L'umidità di quei posti gli procurò qualche acciacco, del quale non si curò.
Prima di abbandonarsi ad una vita solitaria nei boschi, lo stregone chiese ai giovani di tenersi pronti per la cerimonia nuziale.
Nel giorno stabilito per le nozze, i tre caddero insieme nel sogno ad occhi aperti. Molto lontano, nella prateria di un altro continente, l'intera tribù dei Pittori si disponeva a fare la stessa cosa.
Le forme furono pienamente rispettate. Il matrimonio, tra i Pennelli colorati, aveva i modi di uno scambio. Lo sposo doveva fingere di regalare al padre della sua amata un oggetto di grande valore (salvo poi a riprenderselo al termine della cerimonia). Fu così che Stefano regalò a Colore Vivace un magnifico cavallo, che era lo stregone. Il capo tribù apprezzò molto quel dono, perché nessuno a quel tempo, in quel continente, conosceva un simile animale.
Quando le fanciulle del villaggio terminarono la grande danza nuziale, la cerimonia terminò. Stefano e Acquatinta furono marito e moglie. Il sogno ad occhi aperti cessò. Il cavallo tornò al suo posto.
La fuga dei tre non aveva portato pace nel cuore della matrigna. Il suo odio, anzi, era aumentato. L'idea che i due ragazzi vivessero felici da qualche parte, la faceva impazzire. A parte questo, desiderava eliminare anche fisicamente Stefano, per togliere di mezzo il legittimo erede degli Odestefani e diventare la padrona incontrastata di tutti i beni di famiglia.
Poiché le autorità non riuscivano a scoprire il rifugio di Acquatinta, Stefano e Coda di Qualcosa, sguinzagliò lei delle spie, pur venire a capo di tutto.
Acquatinta era turbata. Sentiva che qualcosa stava per accadere. Non voleva creare ansie in Stefano, perciò tenne nascosto al suo amato certi suoi presentimenti.
La ragazza si mise alla ricerca di Coda di Qualcosa. Lo stregone che, ovviamente, sapeva vedere nel futuro, confermò che molti pericoli si profilavano all'orizzonte. Bisognava tenersi pronti.
Le spie avevano lavorato bene. Un nutrito gruppo di armati li sorprese in una radura. Acquatinta e Stefano erano ciascuno a cavallo. Coda di Qualcosa era, per fatti suoi, egli stesso un altro cavallo. Lo stregone, forse perché cominciava a denunciare gli acciacchi dell'età, combinò pasticci e si trasformò in un gatto dalla coda di asino. Compreso l'errore, divenne se stesso, con la coda di asino. Fece nascondere i ragazzi sotto un mantello e pronunciò le parole magiche.
I giovani ed i cavalli si dissolsero ed iniziarono un lungo e magico viaggio. Ma il povero Coda di Qualcosa fece un altro e, per lui, fatale errore. Perciò rimase solo nella radura e morì sotto i colpi delle armi da fuoco dei soldati.
Acquatinta fece ritorno nella grande pianura, insieme all'amore conquistato. La ragazza scese da cavallo e guardò perplessa la coda di asino che si ritrovò in mano.
Il povero stregone aveva riparato sotto il mantello solo la sua coda.
Stefano fu accolto con grande affetto e rispetto dalla tribù dei pittori. Egli volle dipingere come un Pennello Colorato e dimenticò le tecniche e gli artifici degli artisti della sua terra. Aderì talmente alle tradizioni della tribù, si distinse talmente per coraggio, valore e intelligenza che diventò lui il capo, molto tempo dopo.
Acquatinta fu madre e sposa perfetta, ma non rinunciò mai alla sua individualità di artista. Unica tra i Pittori, dipinse nello stesso modo in cui l'avrebbe fatto un maestro napoletano del quindicesimo secolo.
Acquatinta e Stefano insieme ai loro figli vissero felici e contenti per molti e molti anni.
Non si separarono mai dalla coda d'asino. Questa aveva numerose proprietà: risanava gli ammalati, muovendosi da sola faceva divertire i bambini e, soprattutto, dava la felicità per sempre a chi la possedeva.