Teatro d'ombre
da "Il messia meccanico"
La famiglia di Alek viveva animando marionette in una lontana città dell'Asia Minore. Anche gli antenati avevano praticato quell'arte considerata, forse ingiustamente, minore. Ma c'erano stati dei cambiamenti. Se i trisavoli avevano potuto agire pubblicamente, nelle strade e nei mercati, i bisnonni avevano dovuto ripiegare su spettacoli al chiuso. L'avvento del cristianesimo aveva penalizzato chi nelle antiche rappresentazioni aveva messo in scena vicende di dei e di eroi.
Quei teatranti non avevano mai rinnegato le antiche credenze, ma avevano imparato ad essere prudenti. Null'altro si poteva fare di fronte a masse di esaltati che, mossi da potenti istigatori, distruggevano templi e mettevano a morte senza pietà sacerdoti e fedeli della vecchia religione. Gli antenati di Alek e i loro discendenti erano restati in un doloroso silenzio, protetti da sostenitori che vedevano nella loro arte un mezzo per piacevolmente intrattenere i loro figli.
Nuovi terribili accadimenti si profilavano all'orizzonte. Altri spietati distruttori di templi, provenienti dalle sabbie ardenti del deserto, avevano invaso quelle martoriate terre. Ora anche i cristiani soffrivano. I musulmani invasori non esitavano a mettere a morte, in una prima fase, nei modi più crudeli chi non si sottometteva al loro credo. Poi, consolidato il loro potere, mostravano una relativa tolleranza, risparmiando i convertiti, purché appartenessero ai “popoli del libro” e accettassero di vivere sottomessi, in perpetua umiliazione, e pagassero un tributo.
Alek e la sua famiglia, sfuggiti alla prima persecuzione, non riuscirono a sottrarsi alle seconda e furono portati davanti al visir.
“Ci è stato detto che non sei cristiano e che non ti sei sottomesso ai voleri del profeta. È anche giunto al nostro orecchio che pratichi in clandestinità l'arte di rappresentare storie muovendo fantocci sostenuti da fili. Ciascuno dei membri della tua famiglia opera su un solo pupazzo, in modo che sembri che il personaggio abbia una vita autonoma, indipendente dai voleri del Misericordioso.
Non ti chiederò di mostrarmi un saggio dell'arte tua perché essa è blasfema, ma sarò io a farti vedere uno spettacolo intimamente edificante.”
Si spensero le luci e l'attenzione dei presenti si focalizzò verso il fondo della grande sala. La luce di torce si intravvedeva dietro un grande drappo rettangolare chiaro. Qualcosa si agitava al di là del tessuto e lì proiettava ombre. Figure ritagliate agivano come fantasmi per dare origine a una storia, che doveva essere buffa, perché il visir ed il suo seguito, ma non Alek e i suoi familiari, ridevano scompostamente.
Quando lo spettacolo ebbe fine, il visir ordinò che il drappo venisse rimosso. Apparve un uomo che, da solo, muovendo delle stecche, dava movimento e vita a figure intagliate in forma di uomini e di animali.
“Vedi, infedele, vi è un solo principio in questo teatro delle ombre, come nella vita, un solo fattore che impone e determina. La tua arte, invece, vorrebbe far credere che tutto è rimesso al capriccio e alla volontà degli uomini.”
Poi rivolto ai suoi, il visir ordinò: “Che siano messi a morte!”
Alek, sua moglie e i suoi figli, furono portati fuori delle mura della città, là dove le carovane si accampavano per la notte. In prossimità di un grande masso levigato, delle dimensioni del drappo dove si era tenuto lo spettacolo davanti al visir, gli infedeli, e tra essi anche quelli in tenerissima età, furono decapitati. Schizzi di sangue colpirono il grande masso.
Rimossi i corpi, ai quali fu data indegna sepoltura, i convogli di mercanti ripresero a sostare e ad accamparsi per la notte.
Il fuoco dei bivacchi illuminava la grande pietra e quello che si frapponeva tra essa e le fiamme creava ombre inquietanti sulla parete levigata. I movimenti di un gatto, le sue strane contorsioni per effettuare le sue pulizie, il dimenarsi di un cane per afferrare tra i denti la sua coda, l'affrettarsi di un grillo o di un insetto, il rotolare di pietre leggere portate dal vento, il moto leggero delle foglie spinte dai movimenti dell'aria, i gesti compiuti dai carovanieri, davanti ai ceppi ardenti, tutto ciò disegnava ombre evanescenti sullo schermo di roccia. E, a guardar bene, facendo anche appello all'immaginazione, da quell'andare e venire di forme si sarebbe potuto ricavare la sensazione di assistere a uno spettacolo, fatto di quadri che si succedevano incessantemente.
E, come nella vita, non vi era un regista, un dittatore spietato, che determinava implacabilmente lo svolgersi dell'azione. A sprazzi e brandelli di volontà, come il volersi leccare una zampa o mettere la coda tra i denti per liberarsi di un parassita, o muoversi intorno al fuoco per ravvivare la fiamma, si sovrapponevano gli effetti del caso, come la direzione e l'intensità del vento, che agitava le foglie e i rami di un albero, senza corrispondere a nessuna determinazione sovrumana.
E una notte, ospite di mercanti di spezie, si trovò in quel luogo un anziano sapiente, che veniva da molto lontano. Molto egli aveva letto, non gli erano ignote le conoscenze degli antichi, che teneva per sé, essendo considerate blasfeme e contrarie ai sacri testi, crudeli reggitori di quella infelice parte del mondo.
La notte era fredda, e il vecchio si era accoccolato in prossimità del fuoco. Era stanco per il lungo viaggio ed inquieto. Quel giorno era stato imprudente ed aveva commentato con ironia, davanti a un folto pubblico, certi riti ai quali aveva assistito.
Il saggio si addormentava, poi si svegliava all'improvviso, guardava il profilarsi delle ombre sulla pietra e cadeva di nuovo preda del sonno. Buona parte della notte passò in quel modo. Nei momenti di lucidità i fantasmi disegnati si collegavano al suo sapere e ciò gli consentiva di dare un senso a quello che vedeva.
E vide un'antica città e le sue mura cadenti, poi si stagliò, per un attimo, la grigia immagine di un tempio diroccato, che pur era stato splendente, e di un olivo disseccato. Dopo che l'ombra dell'uccello sacro sembrò fuggire spandendo la sua presenza sulla terra, ogni cosa svanì.
L'uomo vide, poi, nell'inquieto dormiveglia, il mare che restituiva alla sabbia, pezzo dopo pezzo, antiche reliquie: un dito, un ventre accogliente, un seno, un occhio splendente. Tra tutto spuma fecondante. Per un attimo il grave viso del vecchio si illuminò davanti alla visione astratta di un'infinita bellezza.
Il saggio scacciò incubi molesti, aprì appena gli occhi e vide un mare, una barca e auguranti petali di rosa sparsi sull'acqua.
Un vento leggero e costante gonfiava le vele e la barca andava da porto a porto, là dove non si elevavano più antiche preghiere.
I sovrappopolati lidi erano un deserto, non si vedevano più magnifici templi. Non c'erano più né sacri luoghi né l'ignoto da sfidare. Inutile era il vento e immobile era ora la barca.
Al sapiente sembrò di immergersi nel profondo del mare per scorgere nelle profondità un testamento: abbandonata sulla sabbia la sagoma della punta di un tridente e, intorno, alghe tremanti. Poi la visione riportò l'osservatore delle ombre sulla superficie del mare dove un intemerato e perenne navigatore rompeva le catene perché non vi era più niente da udire, quei canti che portavano al delirio e che rendevano dolce e desiderabile l'impazzire.
Il visir nulla seppe ovviamente del sacrilego teatro d'ombre dove il sapiente aveva mescolato forme e immaginazione. All'uomo potente bastò conoscere le incaute ed empie frasi pronunciate in pubblico dal vecchio per condannarlo a morte.
E nella ora serena mente del saggio, mentre veniva condotto al supplizio per decapitazione nei pressi della grande pietra, si formarono visioni di un tempo antico. Vide l'ardere di legno profumato. Donne che piangevano e, disperate, si strappavano i capelli. La carne distrutta dalle fiamme e la cenere che si levava in cielo. Poi quello che rimaneva era deposto in mare: un poco si mescolava all'acqua, altro si sposava alla sabbia.
E mentre la mannaia calava sul collo dell'uomo, egli vide l'onda che sferzava la sabbia e si riposava, poi fu pace e silenzio.