Frammenti di luce

da "Il messia meccanico"


Quando morì mio padre avevo solo dieci anni. Il ricordo di quel giorno in tutti i particolari è ancora vivido nella mia memoria. Rammento che mio fratello maggiore coprì con un lenzuolo la grande specchiera che era nella stanza da letto, dove giaceva il mio genitore. Credo che quella fosse una tradizione molto antica. Dubito che sia seguita ancora oggi. In pratica, si voleva impedire che l'immagine del morto venisse riflessa nello specchio e che il defunto rimanesse così intrappolato in questo mondo, impedendogli di compiere un lungo viaggio verso una meta che confesso ancora oggi di ignorare.

Mi chiedevo, però, da bambino cosa sarebbe successo se il panno che nascondeva il vetro specchiato fosse, per un qualsiasi accidente, caduto, e, soprattutto, se fosse stato possibile rimediare all'evento sgradito. Non avevo chiesto a nessun adulto e mi ero dato una risposta e una soluzione da solo. Bisognava fare in mille pezzi quel vetro, e le mille scintille di luce, prodotte dai minuti frammenti avrebbero certamente liberato l'anima imprigionata.

Avevo, poi, elaborato un'altra teoria, che non so se abbia un qualche riscontro nella tradizione, e cioè che il definitivo viaggio fosse ostacolato non solo dagli specchi, ma da qualsiasi oggetto di vetro, perché capace anch'esso di riflettere le immagini. Nel caso quegli oggetti si fossero trovati nella stanza del trapassato, concludevo nella mia fantasia di bambino, sarebbe stato non solo consigliabile ma doveroso procedere alla loro distruzione e, quindi, alla loro trasformazione in mille e mille sfavillanti frammenti.

Sono sicuro che in questo modo furono liberate le anime degli abitanti dei due palazzi di via Marina completamente distrutti, insieme a innumerevoli altri, da uno dei tanti furiosi bombardamenti americani che colpirono, nel 1943, Napoli, i suoi inermi cittadini, i suoi monumenti, la sua storia.

Si voleva fiaccare la popolazione e, alla fine, liberarla, si disse.

Dei due edifici rimasero, dopo l'orgia di bombe, non segnalata da nessun avviso della contraerea, solo due muri che si fronteggiavano. Ciascuno reggeva malamente due finestre con i vetri miracolosamente intatti.

Tra i calcinacci e le mille cose di vita quotidiana ridotte in pezzi, brillavano minuti pezzetti di vetri e di specchi. Segno che le anime di molti erano state liberate, come quella di Aida.

Aida, la matura zitella che non si era sposata per accudire la madre anziana, aveva una cura maniacale per la pulizia della casa. Ogni più nascosto anfratto doveva essere lustro, pulito, privo del più impercettibile granello di polvere. Quel giorno attendeva alla pulizia della stanza da pranzo, camera che era il più possibile interdetta perché non si sporcasse. Era tutto un brillare: i due mobili che si fronteggiavano e che portavano ciascuno un grande specchio oblungo in cornici intarsiate e dorate, la cristalliera dai vetri laterali bombati e dallo specchio che copriva la parete interna e i ninnoli di vetro, e i bicchieri a calice che erano sui ripiani interni pure della trasparente sostanza. Al centro del soffitto troneggiava un grande e maestoso lampadario, dal quale pendevano decine di gocce. Quei pendagli di cristallo tremavano felici sotto le esperte mani di Aida, che li lustrava, stando in piedi su una scala malferma, perché diventassero abbaglianti. Mille Aide, riflesse per ogni dove nel lampadario, negli specchi, nei ninnoli e nei bicchieri caddero dalla scala, sprofondarono nella caduta del solaio e di ogni struttura dell'edificio e si frantumarono per permettere il passaggio di chi li aveva accuditi con tanta passione.

Due piani più su la vedova Mirabella non poteva staccare gli occhi dalla sfera di vetro che conteneva una gondola e che, se capovolta, faceva scendere mille fiocchi di neve sull'imbarcazione. Era un ricordo del suo viaggio di nozze e di suo marito, che aveva immensamente amato. Quel viaggio era stata l'unica parentesi felice della sua vita, segnata dalla morte del suo indimenticabile compagno dopo solo un anno dal matrimonio. La bomba la sorprese mentre contemplava la sfera di vetro che inesorabilmente si ruppe insieme alla sua padrona. 

La vedova Mirabelli potè partire per il suo ultimo viaggio, che, di sicuro, avrebbe toccato anche Venezia.

Marianna si nascondeva in bagno per piangere. Era convinta di essere bruttissima e che mai avrebbe potuto avere un fidanzato, un marito. Certo non l'aiutava nelle sue radicali convinzioni il fatto che i suoi sedici anni le avessero fatti spuntare sul viso orribili foruncoli e pustole. La chiamavano, qualcuno doveva entrare nel bagno. Marianna cercò di nascondere i segni del pianto lavandosi la faccia, ma prima coprì lo specchio sul lavabo con un'asciugamani. Non voleva vedersi per non accrescere il suo dolore. 

Lo spostamento d'aria le svelò nello specchio crudele un'ultima volta le fattezze del suo viso. Poi tutto si frantumò nei liberatori brandelli.

Pochissimi piaceri della vita erano rimasti a nonno Gaetano. Forse uno solo, quello di poter bere un po' di vino e di addormentarsi, poi, con una coperta sulle gambe sulla poltrona in camera sua. La figlia era, però, inflessibile:

“Il medico ha detto che il vino ti fa male. Non insistere. Non sono cattiva. Lo faccio per la tua salute.”

Il placido vecchietto annuiva di fronte all'ennesimo rifiuto alla sua ennesima richiesta. Ma non si dava per vinto. Con pochi centesimi corrompeva la servetta, che, ogni volta, gli dava via libera. Nessuno era in casa, tutti si erano allontanati. Gaetano, così, maledicendo i reumatismi e gli altri acciacchi che gli impedivano di muoversi agevolmente, tuttavia felice, si accoccolava nel ripostiglio accanto alla grande boccia di vetro ricolma del suo liquido preferito. Affondava un tubo nella damigiana e succhiava, contento come un bambino. La distruzione lo colse senza che si rendesse conto di quello che accadeva, tra strani bagliori color rosso rubino.

“Non si beve dalle bottiglie. È segno di cattiva educazione.” 

L'acqua da giorni non scorreva dai rubinetti e si era costretti a raccoglierla dalle fontanelle pubbliche con tutti i recipienti di cui si poteva disporre in casa. Emilio, un vivace ragazzino, si ostinava a non versare il liquido in un bicchiere, ma a bere a garganella dalla bottiglia.

“Solo così va via la sete” spiegò Emilio per scusarsi un'ultima volta mentre il trasparente contenitore esplodeva tra zampilli e scintille di luce.

I gemelli Anzalone, come ogni giorno, a quell'ora, giocavano l'ennesima partita a carte. Avanti con gli anni, erano rimasti praticamente uguali, la stessa faccia, la medesima espressione del viso, l'identico vistoso neo a destra sul labbro superiore. Gli abiti erano diversi, perché averli uguali era una cosa da bambini, ma gli occhiali, con i vetri spessi per correggere una pronunciata miopia, non si differenziavano per niente. Uno faceva un punto, l'altro rispondeva, subito dopo, con un'uguale vantaggio di gioco. Alla fine anche quella partita, come tutte le altre che le avevano precedute, finì patta. I due, nello stesso momento alzarono lo sguardo dalle carte stese sul tavolo, si guardarono e scoppiarono a ridere. Il volto dell'uno riflesso nella pesante lente dell'altro esplose formando mille schegge nel momento della deflagrazione. E fu così che nessuno dei due corse il rischio di rimanere imprigionato da solo sulla terra.

Al piccolo Emilio piaceva tutto quello che era luccicante, dalle biglie colorate, allo specchietto contenuto nella borsetta della madre. Al ragazzino erano stato detto che non era consentito frugare nelle borse delle signore. Ma la tentazione di dirigere un flusso della luce del sole verso qualunque cosa era più forte di lui. Emilio si accostò alla finestra e diresse il fascio luminoso verso il gatto. Al momento del bombardamento fu quindi il gatto ad avvantaggiarsi, su un piano strettamente ultramondano beninteso, della rottura della superficie argentea. Ma, a vederla dal medesimo punto di vista, anche Emilio si salvò perché la sua immagine era rimasta per qualche attimo impressa nella boccia dei pesci rossi, pure quella inesorabilmente infranta dal terribile evento bellico.

Caffè non se ne trovava più in quei calamitosi tempi e ci si doveva accontentare di orribili misture. Ma la signora D'Auria, avvertita da una sua cara amica, aveva saputo che in un certo luogo si poteva trovare a borsa nera qualche etto dei preziosi chicchi, per farne dono al marito nel giorno del suo compleanno. Il Signor D'Auria, che era un caffè – dipendente, e che soffriva terribilmente la mancanza ormai cronica della sua bevanda favorita, era stato informato per via di un parlottare, a voce non sufficientemente bassa, tra la moglie e una delle figlie. La donna era uscita da parecchio e D'Auria, che aveva tratto dal mobile di cucina l'armamentario necessario per preparare l'infuso, non staccava gli occhi dall'orologio, contando impaziente i minuti e finanche i secondi che lo separavano dal prezioso dono.

“Ma quando arriva? Ma perché ci mette tanto? E se poi glielo rubano!”

La sua mente si arrovellava appunto sull'ipotesi di un possibile furto con destrezza o con violenza del caffè, quando il vetro dell'orologio si spezzò in mille parti, infrangendo l'immagine di un uomo preoccupato e ansioso, che comunque aveva garantita la libertà per un lungo viaggio pur senza un caffè di commiato.

Giacinto, che abitava nel sottoscala di uno dei palazzi, da una vita faceva il ladro e, conseguentemente, entrava e usciva di galera. Memore dei suoi infortuni con la giustizia e delle innumerevoli perquisizioni nella stamberga dove viveva, si liberava subito del frutto dei suoi furti. Ma quella volta si era ostinato a non portare dal ricettatore il prezioso quadro che aveva sottratto in una bella e ricca villa principesca. Quel volto di donna lo aveva ammaliato. Guardava estasiato le labbra carnose, i capelli corvini, gli occhi nerissimi e quell'espressione da diavola. In breve, Giacinto si era innamorato della donna così sapientemente ritratta da un grande pittore. Nonostante gli avvertimenti di un suo compagno di male avventure, non si era voluto disfare del quadro, eppure era stato avvertito che la polizia era arrivata alla conclusione che era stato lui l'autore del colpo. Certamente gli doveva essere fuggito il senno, perché dando via libera a un'irrefrenabile passione, si era dato a coprire di baci il vetro che proteggeva il dipinto. 

Fu una disgrazia per il commissario di polizia irrompere nella povera casa di Giacinto proprio nell'attimo in cui si scatenava l'inferno di bombe, ma i pezzi di vetro, che fino allora avevano protetto la donna delle meraviglie, almeno assicurarono al ladro ed al tutore della giustizia un'istantanea dipartita senza alcun intoppo.

Era un periodo d'oro per Erminia la cartomante. I tempi orribili spingono inesorabilmente a cercare risposte in ogni modo, anche nei più improbabili, ai mille ed angosciosi interrogativi sul presente nascosto e sul futuro.

“Dov'è il campo di prigionia di mio figlio? Tornerà mio fratello, mio cugino, il mio fidanzato dalla guerra? Quando finiranno queste sofferenze?”

Erminia era appunto a consulto con una giovane ragazza che cercava notizie sul suo amato, da tempo al fronte e del quale da mesi non si avevano più notizie.

Il responso delle carte era stato ambiguo e le donne erano passate a scrutare con attenzione nella grande palla di vetro che troneggiava al centro del tavolo e nella quale erano riflesse due immagini. Fu nell'attimo in cui sembrò che un terzo volto apparisse nella sfera che tutto esplose, liberando due o forse tre persone.

Quello che rimaneva dei due palazzi, quei muri desolati tra una marea di calcinacci, pietre e frammenti luminosi continuavano a reggere, al limite delle forze, due finestre che si fronteggiavano.

Fino a pochi attimi prima che l'inferno scendesse in terra, due fidanzatini si erano scambiati segnali d'amore. Baci dati sulla mano e gettati con un soffio al di là dei vetri, un discorrere a segni perché gli adulti di casa non sentissero.

“Scendi! Dici che vuoi portare il cane a spasso. Poi ci vediamo al solito posto.”

“Non posso. Mio padre è tornato presto dal lavoro e mio fratello proprio ora è tornato dalla passeggiata con il cane.”

A guardare bene i due vetri delle finestre, intatti malgrado tutto quello che era successo, si sarebbero potuto scorgere le sagome trasparenti di due innamorati, imprigionati nell'attimo di scambiarsi a distanza un bacio di congedo.

Ma un vento impetuoso e pietoso investì con forza i due muri facendoli crollare. Le pesanti finestre si schiantarono al suolo facendo alzare nuvole di polvere. Ma in quelle nubi era possibile scorgere il brillare di vetri che si frangevano, si mischiavano, diventavano un tutt'uno, sicché non era possibile distinguere i frammenti di vetro di una finestra da quelli dell'altra.

I due fidanzatini si erano uniti per sempre, come un giorno avevano solennemente giurato l'uno all'altra, nell'attimo in cui erano stati liberati.