La bimba felice e la tartaruga pensosa
da "Il messia meccanico"
Molte volte avevo chiuso gli occhi ed avevo rivisto, percorrendo in un attimo centinaia di chilometri, i luoghi dell'infanzia e della giovinezza. Mi ritrovavo sempre sotto l'antica casa a guardare la finestra, ora chiusa, da dove ogni mattina c'era chi agitava la mano per salutarmi, mentre mi allontanavo per andare a scuola e, poi, al lavoro.
Salivo, nel vivo ricordo, le due rampe di scale. La porta di casa si apriva, senza che io facessi nulla.
Tutto era come allora, ma non c'era nessuno. Percepivo l'ordine consueto, sentivo l'odore del pulito. In cucina, sulla tavola era pronto, sulla tovaglia candida, un pasto frugale per una persona molto anziana: zucchini lessi, un po' di formaggio, del pane, due mele cotte, un bicchiere d'acqua riempito dalla solita bottiglia verde. Mi sedevo e aspettavo. Il tempo scorreva, scandito dal ticchettio del grande orologio da cucina.
Ogni volta la mia attesa della persona amata risultava vana.
Andavo nella stanza da pranzo, lucida e lustra. Ero io ad aprire la finestra. La strada era popolata di gente, e, quasi di fronte, potevo vedere la sagoma del secolare ed immenso albero di lauro canfora. Quella pianta, nella realtà, non esisteva più, estirpata per far posto a carcasse di auto.
A questo punto riaprivo gli occhi e cominciavo a pensare.
Anche quando chiusi gli occhi senza che lo decidessi io, tornai lì. Fu un momento, ma la maniera era diversa. Non era la visualizzazione di un mondo lontano. Era presente una parte di me in quei lontani e antichi luoghi. Osservavo e guardavo da vicino.
Aspettai sotto la finestra e, finalmente, una mano mi salutò. Potevo andare. Tutto scomparì mentre mi avviavo. Mi girai per rispondere al saluto di quella mano, che anch'essa svanì. Non c'erano più le botteghe, i brutti palazzi, la strada era di terra battuta. Solo il gigantesco lauro canfora era tornato al suo posto. Di fronte, ogni segno della città era assente, solo un'immensa pianura. Il cielo stellato rischiarava la notte. Mi accostai, dopo aver esitato, all'albero e scoprii due presenze.
Nei viaggi che facevo ad occhi chiusi, dopo un po', la visione si deformava e mi trovavo di fronte ad immagini strane, inconsuete. Perciò non mi meravigliai di quello che vidi sotto l'immensa pianta. Assorte a guardare verso la pianura erano un'enorme tartaruga, grande quanto un'utilitaria e, al suo fianco, una bambina.
In modo altrettanto naturale, la tartaruga mi guardò e rispose lentamente, strascicando le parole, ad una mia muta interrogazione:
"Questa bimba è stata affidata alle mie cure, ne sono l'istitutrice. L'incarico è gravoso, mi dà molti pensieri e preoccupazioni."
E tacque, ricadendo in certe sue riflessioni.
La bambina bellissima, anch'essa assorta, aveva grandi occhi rotondi, i tratti finissimi, i capelli d'oro raccolti in trecce. La veste azzurra portava, fittamente disseminati, piccoli ricami d'argento che rappresentavano stelle e costellazioni dell'universo profondo e lontano.
Osservai meglio la fanciulla. Mi sembrava scolpita nell'aria da intense luci colorate, ma, a momenti, da forma purissima si trasformava, assumendo una sostanza piena e reale.
"Siamo qui da tempo immemorabile” spiegò poi la tartaruga. “Alla bimba è stato dato di scegliere il momento ideale per calarsi nella storia, in un'esistenza segnata da una perenne felicità."
Fissavo la piccola. Quanto mi sarebbe piaciuto che fosse stata proprio lei la figlia che avevo sempre desiderato, ma che non avevo mai avuto!
L'istitutrice sembrò leggermi nel pensiero.
"E come le avresti potuto garantire la perenne felicità?" chiese, non nascondendo nell'inflessione della voce, il suo scetticismo sui miei desideri.
"È vero" risposi con onestà, come risvegliandomi da un sogno e pensando ai pochi puntini felici, che avevano fiocamente brillato sulla scura e pesante coperta della mia esistenza.
Intanto, il tempo scorreva nella pianura davanti alla bambina. Si materializzavano la cronaca, il già avvenuto, si apriva la porta del tempo su quello che doveva ancora accadere. Fissa davanti a sé, la bimba si introduceva in quello che è, volgendo il capo a destra le appariva il futuro. Quando non la soddisfaceva né l'oggi, né il domani, andava a quello che era stato, guardando a sinistra.
Le veniva, infatti, qualche volta, il pensiero che, forse, non aveva ben considerato un periodo che era inesorabilmente trascorso, che si era fatta scappare l'occasione giusta. Forse allora sarebbe valsa la pena di nascere!
"No, non hai sbagliato" subito la confortava l'amorevole e pensosa tata.
Poi la tartaruga si immerse in riflessioni a bassa voce, pronunciate con un tono di voce lentissimo: "Cercare la felicità nel passato. È l'estrema difesa per non essere travolti dal presente... Poi l'inutile lavoro mentale di imparare dagli sbagli del passato per non commetterli nel presente e nel futuro... Nessuno ha mai imparato niente da questo." La voce si fece più alta e decisa e, rivolta ora non più a se stessa, ma alla sua protetta, ribadì: "Comunque, qui non sono mai stati commessi errori. Io sono stata sempre vigile ed attenta."
Davanti agli occhi della bimba si snodavano scene di vita quotidiana, in caverne, capanne, stamberghe, in case e appartamenti, poveri, dignitosi, ricchi. E, poi, si aprivano squarci, a prima vista luminosi su palazzi reali, ville principesche, residenze favolose.
Quando un pensiero positivo, una speranza si affacciava, l'aspetto della bambina per qualche attimo cambiava, come se allora carne e sangue affluissero e la scolpissero.
Era il momento adatto per nascere? La piccina cominciava a parlottare con la fedele e attenta tata. Si scambiavano impressioni, opinioni ma, alla fine, inesorabilmente, entrambe scuotevano il capo. Mentre nuove scene si snodavano, la bambina tornava a risplendere di sola luce.
Sul fondo lontano della pianura si delineava il clima che aveva contrassegnato ogni epoca. Agli sparuti gruppi di uomini primordiali che si colpivano a morte con pietre, zagaglie e frecce, succedevano manipoli, sempre più numerosi e raffinati nel recidere la vita, con luccicanti armi di metallo. Alle corazze abbaglianti, sotto un sole che si spegneva tra gli squarci di carne e le pozze di sangue, seguivano colpi secchi, nuvole di fumo acre, traiettorie di colpi e palle letali, il crepitio continuo di strumenti che producevano musica mortale e, poi, macchine malignamente sferraglianti e rimbombanti, che travolgevano fili spinati, case, campi, villaggi, città intere.
Ancora più lontano, nel mare che si intravedeva al termine della grande pianura: zattere, navi a remi, immensi velieri e corazzate che morivano inabissandosi nei fondali, mentre cento e cento mani fuoriuscivano appena dall'acqua in una disperata e inutile richiesta di aiuto.
Il cielo era rimasto indenne, fino al momento in cui terribili arnesi volanti avevano oscurato l'azzurro, seminando pianto con fragori orribili. E mentre nuvole letali a forma di fungo si levavano alte, la tartaruga, afflitta e pensosa, commentò, farfugliando a voce bassissima.
“Quanto è doloroso il rumore di fondo della storia!”
Ad un tratto la bimba e la tartaruga si guardarono con fare interrogativo. Ormai tutto era stato esplorato. Anche il futuro non nascondeva segreti.
Le mute domande si trasformarono in una decisione presa di comune intesa.
La piccola finalmente sorrise felice, aveva trovato, con l'accordo della sua protettrice lo spazio e il tempo giusti.
Nel cielo, le stelle, a gruppi, aumentavano o diminuivano a intermittenza l'intensità del loro brillare. Si componevano, così, disegni di fontane di luce per festeggiare qualcosa, mentre la bimba e la tartaruga volavano verso l'alto, lasciando, senza degnarla di uno sguardo, la grande pianura.
Alzai lo sguardo e, per incanto, potei godere del privilegio di assistere a un evento meraviglioso: la nascita nell'Universo profondo di due costellazioni, lontane ed invisibili dalla Terra: la Bimba Felice, e, accanto ad essa, sempre attenta, la Tartaruga Pensosa.
Anche a me e all'antico albero di lauro canfora è stato concesso di rinascere e di essere frammenti che vagano nell'Universo. Io mantengo la rotta e non lascio mai di vista quella che avrei desiderato fosse mia figlia.