La biblioteca di Alessandria
da "Il messia meccanico"
Nel liceo classico Giambattista Vico di Napoli, nel corridoio dove sono la presidenza e la sala dei professori, numerose lapidi sono infisse sui muri. Quei rettangoli marmorei celebrano antichi insegnanti, da tanto tempo scomparsi anche dalla memoria dei vivi, ormai sconosciuti testimoni di un tempo nel quale era bello insegnare ed elettrizzante apprendere.
Una di quelle lapidi muove alla curiosità i pochissimi attenti visitatori. Infatti, accanto alla data di nascita del professor Raffaele Alessi appare un bel punto interrogativo. Alessi, infatti, era sparito e di lui non si sapeva se fosse ancora vivo o se, come, dove e quando, fosse morto. L’improvvisa scomparsa aveva generato, a dir poco, viva perplessità nel mondo del liceo, perché erano note l’integrità e l’attaccamento al dovere del professore, amatissimo dai suoi studenti e rispettato dai colleghi e dal preside. Alessi, professore di fisica, era il custode e l’anima del gabinetto di scienze, dove rimaneva fino a tardi per effettuare esperimenti di cui nessuno sapeva. Si diceva che fosse in corrispondenza con i più grandi fisici del mondo, con i quali scambiava dati e procedure di ricerca.
Negli anni successivi al 1930, il professor Raffaele Alessi si era anche fatto promotore di una nutrita corrispondenza con Albert Einstein. L'italiano sollecitava un incontro nel corso del quale avrebbe fatto delle rivelazioni sorprendenti. Il tedesco, credette di trovarsi di fronte a un pazzo come lui, ma non scosso dalla scintilla del genio. Einstein si limitò ad un solo laconico messaggio: "Non ho tempo". Il suo corrispondente italiano rispose: "Questo non è un problema. Potrebbe avere il suo futuro impegnato. Sicuramente, però, potrebbe trovare nel passato un momento libero. Potremmo incontrarci dieci anni fa, cento anni fa, mille anni fa. Scelga lei."
Il personaggio era stato popolarissimo. Specialmente nella zona che da casa sua, in vico San Mandato, andava fino al poco lontano Liceo - ginnasio Giovambattista Vico dove insegnava.
Sbrindellato, pieno di macchie e di resti dei magri pasti, non poteva passare inosservato. Percorreva il tratto da casa a scuola discutendo animatamente con se stesso. Il gatto che stava con lui, un enorme e bellissimo esemplare grigio, lo seguiva dappertutto. Si infilava finanche in aula, dove ascoltava rapito le lezioni dell'amico. In un solo caso un gatto si comporta come un cane, quando riconosce l'autorevolezza di un uomo.
Dopo gli anni stabiliti dalla legge fu dichiarata la morte presunta del docente e saltò fuori, non si sa come, un testamento. Alessi non aveva parenti, né prossimi, né lontani e, “nel caso di sua improvvisa ed inesplicabile scomparsa” (così era scritto nelle sue volontà), ogni suo bene doveva essere ereditato dal collega Vincenzo Fariello, del quale tratteggiava nel documento le grandi qualità umane e le notevolissime capacità didattiche. Il testamento si concludeva inopinatamente con un “mi raccomando, acqua in bocca”, diretto al collega, e che non apparteneva al consueto frasario usato dall’Alessi. Il professore di fisica non avrebbe usato quelle parole non solo in italiano, ma anche in greco antico, latino e copto, lingue che padroneggiava alla perfezione, quasi avesse appreso da insegnanti madrelingua.
Fariello si predispose all’inventario dei beni del generoso dante causa, e scoprì che il malloppo consisteva unicamente in un appartamento in via San Mandato, ormai polveroso e quasi in rovina a causa della lunga assenza dell’antico proprietario, oltre al gatto che adottò con grande entusiasmo.
Il professor Vincenzo era un tenace studioso di letteratura e un grande trascinatore di studenti, che gli erano devoti per la vita. A prima vista, grandi occhiaie su un viso dal colorito olivastro avrebbero potuto trarre in inganno chi gli si fosse presentato per la prima volta. Quelle occhiaie non erano il segno di stravizi, ma il risultato di lunghe notte insonni sui suoi amati libri. Di questi ultimi aveva un rispetto assoluto, e si inquietava se uno studente si presentava con un libro gualcito, o solo appena sciupato.
Dopo aver espletato le necessarie trafile burocratiche, l’erede designato entrò finalmente in possesso dell’appartamento. Era come se lo aspettava: polvere dappertutto, specialmente sulle cataste di libri ammonticchiati nei posti più impensati. La mobilia cadeva a pezzi, i muri erano scrostati, i rubinetti perdevano. Quello che però lasciò stupefatto Fariello fu una stranissima poltrona che era nello studio del collega. A prima vista la si sarebbe detta una poltrona da dentista, ma un’indagine più accurata induceva a scartare quella ipotesi. Cosa ci facevano quelle eliche sulla sedia e quelle misteriose scatole che erano collegate alla seduta? Finalmente Fariello scorse una lettera sulla poltrona, era indirizzata proprio a lui.
“Caro Vincenzo, ho nominato te, la persona più degna, meritevole e riservata che ho conosciuto, mio erede universale. C’è anche un altro e non secondario motivo. So quanto tu ami lo studio, hai passato e passi notti intere a leggere e rileggere i capolavori di ogni epoca. Più volte mi hai detto che ti sarebbe piaciuto conoscere i grandi letterati dell’antichità, parlare con essi, intervistarli sul loro lavoro. Ebbene, te ne offro l’opportunità. Quella che vedi davanti a non è una semplice poltrona, ma una macchina del tempo, frutto di anni di lavoro e di idee che sarebbero state considerate folli anche dagli scienziati più avventurosi. Con questo dispositivo ho viaggiato nei secoli passati più volte. Mi sono recato spesso nell’Egitto dei Tolomei, perché ho particolarmente prediletto quel periodo storico. Ho avuto l’onore di conoscere personalmente Tolomeo Sotere e Tolomeo Filadelfo.
Ho sempre però avuto la consapevolezza che un evento straordinario mi avrebbe impedito il ritorno. Se leggi questa lettera, ciò è avvenuto.
Confesso che ho compiuto autentici crimini storici, inescusabili attentati all’ordinato sviluppo della linea temporale, così come essa si era svolto. Non so se sono pentito o no, ma ho troppo amato il paradosso. Potrai chiederti se una parte malata della mia psiche ha indotto i miei comportamenti o se agito per megalomania, o per altro disordine psichico. Ebbene me lo chiesi anche io e stavo per giungere ad una conclusione, ma il mio terapeuta, Erofilo di Calcedonia, morì, dopo non molte sedute, e io non riuscii ad agganciare la linea temporale giusta, ed ogni volta dovevamo ricominciare tutto da capo. Eppure era bello parlare con Erofilo, che indagava nella mia mente, prestando particolarmente attenzione ai miei sogni.
Rimango così nel dubbio: ho fatto bene o ho fatto male? Dovevo astenermi, per esempio dal rubare una mappa dell’Atlantico, che riportava con chiarezza la rotta per le Isole Fortunate, dalla grande Biblioteca di Cartagine e farla avere con un sotterfugio a Cristoforo Colombo? Che colpa ho io se i cartaginesi andavano con le loro veloci navi da un punto all’altro dell’Atlantico? Semmai la colpa era dei romani che avevano distrutto fino alle fondamenta Cartagine con tutti gli annessi e i connessi, impedendo che il sapere di quella città fosse ordinatamente trasmesso all’umanità. In qualche modo ho rimediato.
A volte i miei sono stati davvero peccati veniali: che colpa ho io se avevo a casa una grave perdita all’impianto idraulico, non riuscivo a trovare un idraulico e sono stato costretto a far venire con me un tecnico validissimo dall’Alessandria d’Egitto dei Tolomei? Così anche per le feste di piazza che ho organizzato a Casapesenna, mio paese natale. Qui per diversi anni ho trasportato una squadra di valorosi scienziati e tecnici alessandrini, che per la gioia del popolo hanno allestito spettacoli fantastici, a base di Santi e Madonne in forma di automi che si muovevano, benedicevano e mandavano in estasi mistiche il buon popolo.
Ho operato a fin di bene per l’umanità, ma con risultati a volte scarsissimi. Fu quando presi dalla Biblioteca di Alessandria i migliori testi di meccanica e di idraulica, veri tesori della scienza ellenistica, e li portai a Leonardo da Vinci. Non ebbi fortuna quando inserii, nei fascicoli processuali dell’inquisizione contro Giordano Bruno e Galileo Galilei, un’opera sull’eliocentrismo di Aristarco di Samo. Il Bellarmino espunse dagli atti l’insigne lavoro, definendolo “libello diabolico”. Risultato ugualmente negativo conseguii quando portai un’opera perduta di Stratone di Lampsaco a Cartesio. Stratone affermava che gli animali hanno una mente, e, quindi, è possibile accomunare uomini e animali. Ma Cartesio o non lesse o fu duro di comprendonio.
Amico mio, hai ora a disposizione lo strumento che ti consentirà di fare ciò che desideravi. Tieni a mente, però, che quanto ti accingerai a compiere può essere estremamente pericoloso. Non prendere me come esempio. Sono stato spericolato e, a volte, non ho ben calcolato le conseguenze di quello che andavo facendo. Come tu sai, sono amante del paradosso. Comunque, ti conosco. Sei saggio e assolutamente non avventato. Sta, quindi, a te decidere se tuffarti o meno in una meravigliosa avventura. Tieni strettamente per te la mia scoperta e il mio dispositivo. Gli altri o non capirebbero o l’userebbero per fini malvagi, che, peraltro, io non ho mai coltivato. Addio.”
Inutile dire che Fariello rimase frastornato dopo aver letto il messaggio dell’amico, che forse era morto o era rimasto incapsulato per sempre in chissà quale bolla temporale. Quando Vincenzo finalmente si riebbe, passò in rassegna lo strano ed inquietante macchinario che aveva davanti e trovò su un ripiano uno smilzo libretto, che aveva l’invitante titolo “Istruzioni per il funzionamento della macchina del tempo”. Volendo, il viaggio sarebbe potuto cominciare anche immediatamente.
Vincenzo Fariello ponderò i pro e i contro della situazione che era chiamato ad affrontare. Ovviamente, avrebbe seguito alla lettera le volontà dell’amico inventore e non avrebbe rivelato nulla a nessuno. Il problema più spinoso era legato ai pericoli che i viaggi nel tempo comportavano. Ne era prova la scomparsa di Alessi ed il suo temerario comportamento. Ma ripromise a se stesso che, a differenza dell’amico, non avrebbe in nessun modo interferito con il fluire della storia.
Il collega non aveva avuto una famiglia, solo parenti lontanissimi. Anche lui non era sposato, ma i nipoti ai quali era molto legato costituivano un problema. La sua eventuale scomparsa sarebbe stata estremamente dolorosa per i congiunti. Smisurato affetto aveva inoltre per i suoi studenti, che lo adoravano e vedevano in lui un simbolo ed un esempio. Non poteva abbandonare neanche quelli. Al termine di tormentate riflessioni si decise. Scartò l’idea di viaggiare per incontrare i maggiori letterati di ogni tempo. Sì, l’aveva desiderato, ma ora gli sembrava quasi oltraggioso, da spia da quattro soldi, andare ad intrufolarsi nella vita dei grandi. Ma era un peccato non utilizzare quello straordinario strumento che si trovava così inaspettatamente ad avere a disposizione. Bilanciando i termini della questione, alla fine, non senza fatica, arrivò ad una decisione. Avrebbe fatto un unico viaggio, esponendosi a pericoli una sola volta. E il suo andare non sarebbe stato destinato ad incontrare qualcuno, sarebbe andato in un luogo ed avrebbe compiuto un gesto simbolico.
Il luogo che il buon Vincenzo scelse per il suo viaggio fu la Biblioteca di Alessandria, nel periodo del suo massimo fulgore, luogo degno di ricevere i capolavori massimi di ogni tempo. Si proponeva di consegnare idealmente delle opere sublimi in a quel luogo di suprema civiltà. Quali erano queste opere somme per Vincenzo? “I libri mai scritti o per violenza perduti di due autori uccisi dalla barbarie. Bisognava onorare ciò che era rimasto inespresso, l’aspettativa di una feconda elaborazione futura, stroncata dal tributo di sangue. Premiare con l’alloro i caratteri bianchi impressi in menti eccelse.”
Vincenzo Fariello frugava nelle librerie e nelle biblioteche. La sua era una caccia appassionata, che era ricompensata spesso da autentici tesori. Così si era imbattuto nelle opere di Bruno Schultz e di Daniel Varujan.
Di Schultz aveva letto ed apprezzato i fantasmagorici racconti, e aveva saputo che lo scrittore aveva composto un’ulteriore opera “Il Messia”, perduta. Perché del testo non vi era più traccia, tranne l’inizio «Sai – mi disse una mattina mia madre. – È arrivato il Messia. È già a Sambor»? Perché Bruno, in quanto ebreo e vittima dell’olocausto, era stato assassinato da un tedesco, quasi per gioco. Vincenzo Fariello desiderava sopra ogni altra cosa leggere “Il Messia” e quello che avrebbe ancora scritto Schulz, se la sua vita non fosse stata stroncata da un nazista che aveva fucilato a Sambor il Messia e si era insediato, assetato di sangue, a Drohobycz, dove Schultz era nato e cresciuto.
Fariello era segretamente un poeta. Un innato pudore intellettuale lo portava a tenere per sé e per un ristrettissimo pubblico di lettori i suoi pur pregevoli versi. Ovvio che il professore si innamorasse letteralmente dei canti di Daniel Varujan. “Ma perché si chiedeva l’insegnante – non mi è dato di poter leggere fino alla fine l’incompiuto “Canto del pane”? Ovvio che Vincenzo conoscesse la risposta. Anche Varujan era stato una vittima dell’odio bestiale. Il poeta insieme ad un milione e mezzo di altri armeni era stato assassinato dai turchi. La storia non ci ha lasciato un flebile sospiro di un poeta morente, ma urla strazianti perché il suo carnefice gli aveva cavato gli occhi e gli aveva strappato la pelle.
Per Fariello era una questione personale, ne andava la sua umanità e la sua sensibilità di lettore. “Atti scellerati mi impediscono di leggere quello che Schultz e Varujan avrebbero potuto ancora dare al mondo. Gli autori delle nefandezze mi sono debitori, e mi è debitrice l’intera umanità che non ha impedito che si compiessero atti spregevoli contro gli uomini e l’arte.”
Vincenzo fu invitato da un suo antico allievo che si esibiva, con una compagnia teatrale universitaria, nella recita dell’ “Edipo a Colono” di Sofocle. Il giovane fu molto stupito dalla richiesta di prestito della tunica di scena rivoltagli dal professore e dalla frase: “Te la restituisco subito. Solo il tempo di andare e tornare.”
Era visibilmente a disagio al cospetto della macchina del tempo. Consultò, con le mani che gli tremavano, il libretto di istruzioni, azionò, uno dopo l’altro, secondo la procedura stabilita, i pulsanti necessari e finalmente partì, verso il tempo ed il luogo designato.
Prima di partire Fariello si procurò un nutrito gruppo di pergamene. Su un gruppo di esse scrisse Bruno Schultz, usando caratteri greci, sull’altro Daniel Varujan, usando lettere dell’alfabeto armeno.
Il viaggio fu brevissimo, quasi istantaneo. Aveva trovato un’antica mappa di Alessandria tra le carte del vecchio collega ed altre sue preziose informazioni, così procurò di trovarsi in un edificio diroccato situato in un remoto vicolo della città. Si inoltrò, con il cuore in gola, nel tessuto vivo della grande ed illustre metropoli antica. Procedeva consultando la pianta. Ebbe, però qualche esitazione sul percorso da seguire, ma trovò il coraggio di chiedere informazioni ad un passante, ma quello parlava solo la lingua degli egizi. Fu più fortunato con un altro viandante, con il quale intavolò una proficua conversazione in greco antico, che padroneggiava alla perfezione, solo con qualche imperfezione nella pronuncia.
Con informazioni sempre più precise fornite dalla mappa e da altri passanti, si trovò, infine, davanti alla grande Biblioteca di Alessandria. Scivolò dentro, senza dare nell’occhio, insieme ad altri studiosi che si recavano là per le loro ricerche.
Fariello chiese di consultare due opere, il Romanzo di Nino e Semiramide e l' Arte grammatica di Dionisio Trace. Le avrebbe lette, avrebbe preso appunti e, nel frattempo, avrebbe cercato il momento più opportuno per compiere la sua missione.
Finalmente, sia pure dopo molte ore, il tempo arrivò. Si affrettò a deporre le pergamene su uno scaffale. Capolavori ideali tra capolavori, degni di trovarsi in un monumento a una civiltà, pur se destinata al tramonto.
Il ritorno al luogo dove aveva lasciato la macchina del tempo si rivelò molto facile, anche se non vi era più piena luce. Fariello aveva un’invidiabile memoria fotografica.
La macchina del tempo fu distrutta dall’ultimo viaggiatore, subito dopo il suo rientro. Vincenzo considerava conclusa la missione che si era dato. Non voleva cadere in tentazione, compiere altri viaggi che potevano rivelarsi pericolosi per sé e alterare, per gli altri, il normale fluire della linea temporale. Non fece, comunque, mai parola con nessuno della sua portentosa esperienza.
Fariello, avendo abbandonato frettolosamente la Biblioteca di Alessandria, non fu in grado di assistere a uno stupefacente fenomeno. Sulle pergamene, sulle quali, a parte i nomi di Bruno Schultz e di Daniel Varujan, nulla era stato scritto, cominciarono a fluire, incessantemente dei caratteri che finirono per occupare tutte le numerose pergamene che Fariello aveva collocato negli scaffali. Caratteri rossi, perché impressi col sangue.
Così ritornò al mondo il “Messia” di Schultz, insieme a tutti i racconti che Bruno avrebbe scritto se la sua vita non fosse stata troncata. E apparve la versione integrale dei “Canti del pane” e di mille altre poesie che Varujan aveva in mente al momento del suo assassinio.
Nessuno lesse mai quelle pergamene scritte in polacco ed in armeno, forse per un puro caso o forse perché esse non erano state catalogate.
Scamparono all’incendio provocato dai romani, che avevano l’abitudine di incendiare le biblioteche, e lo avevano dimostrato a Cartagine, riducendo in cenere il lascito di quella civiltà, e poi al fuoco appiccato dai cristiani. Le opere postume bruciarono, però, insieme a tutte le altre contenute nella Biblioteca nel 642 allorché il califfo Omar disse, decretando sui volumi dell’istituzione “in quei libri o ci sono cose già presenti nel Corano, o ci sono cose che del Corano non fanno parte: se sono presenti nel Corano sono inutili, se non sono presenti allora sono dannose e vanno distrutte".
Fariello, non poteva non sapere di questo, ma a lui era solo interessato che Schultz e Varujan venissero idealmente onorati tra le opere dei grandi di un magnifico tempo antico, per qualche secolo, fin quando l’inesorabile, ciclico irrompere dell’intolleranza non avesse di nuovo fatto le sue vittime sacrificali, uomini e libri. Libri eterei, fatti di puro spirito, cancellati insieme alle menti che li avevano concepiti. Fantasmi di idee, di pensiero, di arte, che producono agghiaccianti, ma muti, soffocati, inutili rumori e stridi, che nulla possono contro le grancasse della violenza, profondamente incistata negli esseri viventi. È inevitabile, da quando, abbandonati i tranquilli e pacifici mari di Ediacara, la vita, esplosa nel Cambriano, per perpetuarsi, ha abbracciato indissolubilmente la sopraffazione e il cannibalismo.