Universale Remedium
XII
Rumori insoliti provenivano dal cielo di Pompei. Scoppiettii che, a tratti, nei loro momenti più intensi, coprivano quasi del tutto il fruscio prodotto dall’avvitarsi nell’aria fredda di un pezzo di materiale leggero, sinuosamente sagomato. Da una grande nuvola grigia sbucò fuori un modellino di aereo, che iniziò una brusca discesa verso il basso. Stabilizzò, infine, l’altezza da terra, quando si trovò a pochi metri dal suolo. Cominciò a tracciare più volte nell’aria lo stesso percorso, una strana ellisse, che era il perimetro dell’antica città. Al quarto giro, l’aereo ebbe una momento di virtuosismo. Si inabissò fino a scomparire nell’anfiteatro e, nel momento in cui si sarebbe potuto temere un suo schianto imminente contro le antiche pietre del monumento, fu visto riemergere e puntare verso la parte non dissepolta. Quel vasto campo brullo, squarciato al centro dalla trincea, dal canalone di Tumbstone. Mastro Antipher corse verso il velivolo, che era atterrato tra terribili sobbalzi sul terreno ineguale e cosparso di ciottoli.
L’artigiano girò intorno al modellino. Voleva accertarsi che, nel contatto con il suolo, non avesse riportato danni. Tirò un sospiro di sollievo. No, niente. Il volo di prova poteva considerarsi perfettamente riuscito. Prese la macchina volante e la sollevò verso l’alto. Ora le iscrizioni sulle fiancate risultavano in modo netto: S.P.Q.R. 1. Antipher portò l’oggetto nella sua bottega e lo ripose tra le sue cose meravigliose, al primo piano.
Di lì a poco, Platone, che stava proprio allora tornando dal suo consueto giro di ispezione, vide fuoriuscire dal negozio contrassegnato dall'insegna “Titius Caius Antifero” una massa grigia affusolata, a forma di grosso sigaro. L’animale si tenne a rispettosa distanza dall'aggeggio, a stento trattenuto da fili di acciaio. Quando fu del tutto uscito sulla strada, apparve anche Titius Caius. «Non aver paura, Platone. È qualcosa di completamente innocuo». Dopo aver armeggiato intorno all'affare, Titius Caius fece funzionare un’elica che era al di sotto dell’involucro, alla fine della struttura che riproduceva la cabina. Il caprone non tenne in alcuna considerazione le parole di assicurazione. Se ne fuggì lontano. Il dirigibile, liberato dai cavi che lo tenevano legato al suolo, puntò deciso verso il cielo grigio, mostrando ai rari uccelli di passaggio le grandi scritte che occupavano i due fianchi: S.P.Q.R. 2. Antipher seguiva il volo della sua creatura, alla quale faceva percorrere larghi giri sui ruderi, manovrando pulsanti su una scatola nera, dalla quale partiva una lunga antenna.
«Le piace, ispettore?» Tramma era stupito. Tanto che aveva tralasciato di mettere le bottiglie davanti alla sua porta. Dimenticando di averle ancora in mano, le lasciò cadere a terra.
L’improvviso rumore del vetro infranto gli fece staccare gli occhi dal cielo.
«Meno male che ho altri recipienti. Ma cosa intende fare con quel coso lì?»
«Oh, ispettore, i tempi si sono fatti calamitosi. La città è diventata insicura. Le strade sono pericolose. Il solo Platone e la nostra buona volontà non possono bastare a difenderci. Nella cabina del dirigibile sistemerò una piccolissima telecamera e potremo avere su un teleschermo, qui a terra, il controllo completo della situazione. Sto aspettando da New London alcuni pezzi. So che è molto difficile averli. Questa glaciazione, oltre a fermare il progresso tecnico, ha costretto molte aziende produttrici a chiudere».
Tramma, intanto, era rientrato in casa e, con una scopa di saggina ed una paletta di bronzo, raccoglieva i pezzetti di vetro. Il suo amico, intanto, continuava nelle sue fantasie.
«Già ho visto che un modellino di aereo si adatta poco alle nostre esigenze. È troppo veloce e non può sostenere il peso delle attrezzature, che ci occorrono per le nostre rilevazioni. Ho pensato anche di costruire un secondo dirigibile. Lo si potrebbe munire di un faro per illuminare di notte Pompei. Sì, sì, 1’S.P.Q.R. 3. Illuminerebbe la città e l’S.P.Q.R. 2 potrebbe mandarci a terra le immagini. C’è un problema. Come fornire l’energia alle lampade?» Mentre Antipher, finalmente zitto, continuava a grattarsi la testa per cercare un’accettabile soluzione, Tramma, che aveva finito di raccogliere i taglienti frantumi, rientrò in casa. Si stese, vestito com'era, sul lectus lucubratorius. Dalla porta, lasciata semiaperta, entrò Platone. L’animale aveva scelto di stare con una persona più tranquilla. Si mise a fianco dell’ispettore.
«Caro il mio Platone, non so da dove cominciare. Per il caso Petruchio dovrò aspettare che l’amico Mike si decida a mandarmi le informazioni che ho chiesto. Dovrò, quindi, cominciare ad interessarmi seriamente dell’affare Sinopis. Ho tralasciato il vecchio Egizio. Spero che mi perdonerà, ma gli avvenimenti di questi giorni...» Abbandonò la comoda posizione orizzontale, chiuse la porta e si diresse verso l’arca nascosta. «Sinopis doveva essere un uomo molto metodico e preciso» osservò, mentre rovistava tra i rotoli. «Credo che ora mi tocchi leggere questo, se voglio seguire la storia del secretus imperialis investigator con un certo ordine». Ritornò sul lectus lucubratorius e prese a svolgere con cura il foglio arrotolato. «Ah, il mio vocabolarietto di latino è qui. Scostati, Platone. Sicuramente dovrò usarlo. Dunque... 'Mi reco ai bagni pubblici quasi quotidianamente. Attendo alla pulizia ed al benessere del mio corpo. In particolare, tengo le orecchie perfettamente pulite. È necessario che io sia in grado di cogliere anche i bisbigli. È da qualche confidenza appena sussurrata che, forse, il mio lavoro può cominciare a dare frutti. Ho impiegato molti giorni, inutilmente. Prima ho dovuto pensare a sistemarmi decentemente, poi ho dovuto lasciar trascorrere il tempo, così che diventassi una faccia conosciuta tra le altre. Non potevo commettere nessun passo falso. Avrei compromesso dall'inizio la mia posizione in questa che è pur sempre una piccola città di provincia. Credo di essere riuscito molto bene ad impersonare la parte del maestro asino, in cerca di lavoro che, fortunatamente, nessuno mi affiderà mai. L’educazione dei fanciulli, oltre a portarmi via molto tempo, mi avrebbe fatto sprecare il meglio delle mie capacità intellettuali. Ho provato, in passato, a fare il maestro, a Roma. È un’esperienza da mal di testa, sicuramente da non ripetere più. Benedetti ragazzi, che fatica fargli entrare nella testa anche le nozioni più elementari.
Devo pur sostenermi e, per non dare nell'occhio, perché un maestro fallito non può vivere senza far niente, non attingo dal danaro di cui l’imperatore mi ha generosamente fornito. Quando ho bisogno, fabbrico tappeti e li vendo nelle case patrizie. Fortunatamente, si sono già sparse notizie sulla mia assoluta incapacità come precettore, ma, insieme è circolata la mia fama di abile artigiano. Così, mi è agevole non ricevere nessun incarico educativo e collocare, facilmente, le mie opere materiali. Ho capito che la mia apparizione, qui a Pompei, era stata accettata come normale e che non aveva generato sospetti di alcun genere qualche giorno fa. Sulla porta della mia casa, qualche simpatico burlone ha scritto: 'La scienza del Maestro Sinopis è come i tappeti che fa: ci si può camminare sopra'. Mai scherzo mi è stato tanto gradito.
Se il lavoro di introduzione nell'ambiente è brillantemente risolto, non altrettanto posso dire di quello relativo alle mie indagini. Ho momenti di sconforto. Non vorrei ricambiare la fiducia e la generosità dell’imperatore con la mia incapacità a condurre l’incarico come mi è stato affidato.
Finora, alle Terme, non ho sentito che pettegolezzi sull'onestà delle matrone, insinuazioni pesanti sui loro mariti. Devo sorbirmi i commenti su questo o quell'altro gladiatore o su questo o quell'altro attore. La gente, qui, mi è sembrata estremamente passionale, pronta anche a venire alle mani se si mette in dubbio la validità del proprio beniamino, si esibisca questo nell'anfiteatro o nel Teatro Grande. Che vuoto chiacchierare. Fino ad oggi, nulla mi è stato utile'».
Tramma, preso da una viva curiosità per qualcosa, si alzò improvvisamente, sorprendendo per l’irruenza del suo agire il povero Platone. Uscì fuori e prese ad ispezionare il muro.
«Cosa c’è, ispettore? Sta esaminando il muro. Vuole sapere come costruivano i romani. Bene, questo dovrebbe essere l’opus...».
Tariq, sempre continuando la sua ispezione, fece un cenno garbato, per far intendere che non era quello che voleva conoscere.
«Sto cercando delle scritte».
«Ah, allora l’aiuterò. Il tempo di mettere al sicuro 1’S.P.Q.R. 2 e sarò da lei». A quelle parole, Platone, che si era affacciato momentaneamente alla porta, tornò precipitosamente all'interno della casa. Antipher richiamò il dirigibile e fissò i cavi, che scendevano dai dispositivi di attracco, a dei ganci di bronzo, che aveva infisso in due colonne spezzate. L’S.P.Q.R. 2 sovrastò le abitazioni vicine di Antipher e Tramma, spandendo la sua ombra, instabile come i capricci del vento.
«Mi sembra fissato bene» disse a se stesso Titius Caius mentre rientrava in casa per prendere degli attrezzi. Tariq, che non aveva trovato nulla, lasciò fare al vicino. Lisciando con un finissimo foglio abrasivo e passando delicatamente un pennello, l’artigiano riuscì a far venire alla luce qualcosa. Proseguì più attentamente. Anche Platone aveva finito per seguire il lavoro. Solo la testa dell’animale usciva dalla casa di Tramma, e scompariva non appena un colpo di vento più forte faceva sbattere il dirigibile contro il muro.
«Ecco, delle iscrizioni in un bel colore rosso. In qualche parte la vernice è venuta via, ma direi che sono decifrabili».
Tramma si avvicinò al muro e lesse qualcosa in latino. Tradusse subito dopo: «La scienza del Maestro Sinopis è come i tappeti che fa: ci si può camminare sopra». Tariq era molto contento della scoperta.
«E qui sotto, cosa c’è scritto?»
«Ah, questi egizi. Se Sinopis avesse avuto il naso di Cleopatra ne avrebbe guardato sempre la punta».
I due uomini si guardarono, entrambi con aria interrogativa. Antipher fu veloce a risolvere il mistero. «Qui c’è la spiegazione. Guardi quest’altra scritta. Sinopis Paetus. Sinopis strabico». Tramma controllò nel vocabolario.
«Italum acetum. Lo spirito dell’antica gente italica. Si divertivano così a prendere in giro la gente».
Tariq, che, evidentemente non amava quel modo di scherzare, rientrò in casa borbottando: «Sinopis era strabico. Non mi pare un’informazione sconvolgente». Riprese la lettura del manoscritto.
«Non abbandono il mio posto di osservazione. E, giorno dopo giorno, continuo a fare il bagno, gli esercizi ginnici, a nuotare e a giocare a bocce. Esco, quindi, dalle Terme e, con le orecchie spurgate, mi mescolo alla gente nelle strade. È molto difficile imparare a districarsi in mezzo alle vie. Non lo consiglio a chi non è robusto e non sa farsi valere con un potente gioco di gomiti. Qui è peggio che a Roma. Le strade sono ancora più ingombre, per via dei banchetti dei mercanti, che mettono in mostra tutto quello che si può vendere. Nessuno circola tenendo presente le necessità degli altri. Così, le lettighe dei ricchi, i carri che portano le merci, gli uomini che trasportano travi o vasi enormi si ritengono ognuno, singolarmente, padrone della strada. Come se tutti gli altri non esistessero. Quelli che hanno la peggio sono i poveri pedoni. Spinto da questo e da quell'altro, costretto a buttarti improvvisamente a destra o a sinistra per evitare un carro o una lettiga, ti può capitare di finire proprio sopra un rasoio, maneggiato con grande energia da un barbiere, che sta radendo un cliente in mezzo alla strada. Per non parlare, poi, dei mendicanti che ti tormentano. Sento una grande pietà per loro e immenso è il mio disappunto di non poter dare loro quanto vorrei. Se dovessi obbedire soltanto a quello che mi detta il cuore, darei loro tutto ciò che ho ricevuto dall'imperatore. Ma non posso, genererei troppi sospetti. I poveri questuanti hanno l’abilità di leggere nell'animo e non hanno ritegno. Sono sempre più insistenti. Ciò mi causa grandi pene. I bambini, poi, quando non dimostri determinatezza e modi aspri, ti prendono a bersaglio dei loro giochi. Ti tirano le vesti e ti girano intorno, ballando e cantando».
A Tramma sembrò di udire distintamente un coro di bimbi: «Sinopis Paetus, Sinopis Paetus» all'indirizzo di un uomo che, fingendo di non aver sentito, si allontanava con passo svelto, zigzagando abilmente tra lettighe, carri, bancarelle, enormi vasi e pedoni distratti. «Di sera e di notte, poi, gli schiamazzi della strada non si placano, perché continuano il vociare, le urla dei bottegai, il traffico non regolato. La notte avverto il dispiacere di sentirci benissimo. Sono costretto, se voglio riposare decentemente, a usare due tappi di cera. Così si vive in questa città settentrionale. La gente è esuberante, chiassosa. Insomma, un egizio, che proviene da una terra dove si è compassati ed austeri, deve faticare non poco per abituarsi.
Personalmente, sono stato aiutato da due circostanze. La prima è di aver già vissuto a Roma, la seconda è che ho un’importante missione da compiere».
Il papiro era finito. Tramma si stiracchiò e scese per andare a prelevare dall’arca la puntata successiva. Quasi inciampò in Platone. Aveva dimenticato che dormiva quietamente ai suoi piedi. Tramma, pur essendo un grafologo veramente alle prime armi, notò che la scrittura del nuovo foglio non era piatta, non denunciava sconforto come quella del precedente, ma rivelava una profonda emozione. Si imponeva la bevuta di un bel bicchierone di latte di capra.
«Oggi pomeriggio, dopo essere uscito dalle Terme, mi sono diretto al Foro. La mia attenzione è stata forzatamente attratta da un assembramento di persone. Era così fitto che impediva il passaggio. Sono riuscito, dopo un duro lavoro delle braccia, a fendere la calca. Grande è stata la mia sorpresa nel constatare che la gente, disposta in cerchio, lasciava lo spazio libero per l’esibizione di due animali. Si trattava di una scimmia vestita da gladiatore, che cavalcava una capra. Il quadrumane aveva in testa un elmo e, sul corpo, una corazza perfettamente modellata sulla sua misura. Al braccio era stato applicato uno scudo con una striscia di cuoio. L’animale reggeva, ad una delle estremità degli arti superiori una rete, e, ad uno degli arti inferiori, portava un tridente. A tratti, la capra si fermava e la scimmia faceva le mosse di colpire con la rete qualcuno degli spettatori. Quello verso il quale si indirizzavano le attenzioni della scimmia, stava al gioco e arretrava, cadendo sugli altri. La capra percorreva ancora qualche giro, si fermava, poi, per qualche istante, dando la possibilità alla scimmia di raccogliere da terra il tridente che aveva lasciato cadere prima.
Quando ho fatto la comparsa nel cerchio, ho notato che gli animali hanno interrotto la loro esibizione. Ho avuto l’impressione che mi scrutassero. Anche il loro padrone mi ha guardato con attenzione. Mi accingevo a godermi lo spettacolo, quando, improvvisamente, la capra si è fermata di botto dove ero, e la scimmia ha lanciato, come non aveva fatto prima, la rete su di me. Mi sono sentito prigioniero ed ho avvertito la sensazione di costrizione di un gladiatore colpito da un reziario. Almeno, credo. Perché, dal momento che detesto i violenti spettacoli del circo, non mi sono mai recato ad assistere a quelle inutili ed abominevoli esibizioni. Grande è stato l’effetto di quel lancio tra il pubblico. Si sono levate grida, risa e schiamazzi. Ho cercato di darmi un contegno, al di sotto della rete. Non riuscivo a liberarmene anche perché dei bambini la tiravano da tutti i lati. Sono stati gli stessi animali, forse pentiti, ad aiutarmi. La capra ha stretto la rete tra i denti e la scimmia ha dato strattoni ad altri lembi, con quelle che non so se posso chiamare mani. Anche il loro padrone è intervenuto. Sono stato finalmente liberato, ma il prezzo della mia riconquistata libertà è stata 1a caduta a terra, mia e di quelli che erano, ora, i miei salvatori. Rialzatomi, ho cercato di darmi un tono. Ero rosso in viso. Imbarazzato sommamente, perché la dignità mi sembrava perduta per sempre. Spazzolavo le vesti con le mani, per togliere la polvere, il fango e le altre lordure che vi si erano depositate nell'impatto con il selciato. Mi consta che le strade di questa città sono perennemente sporche. Le mie mani tremavano mentre procedevo a quella sommaria opera di pulizia. Intorno, gli sghignazzamenti ed i commenti, dopo aver raggiunto il vertice, si andavano spegnendo. Quel pubblico aveva capito che, per quel giorno, ormai, l’esibizione dei due animali non avrebbe necessariamente potuto toccare momenti più comici di quelli nei quali ero stato involontariamente coinvolto. Tutti se ne erano andati ed eravamo rimasti finalmente soli, io, gli animali ed il loro padrone. La scimmia era sinceramente pentita e mi gironzolava intorno, lamentandosi. Era andata, poi, a ficcarsi sotto la mia mano destra, che era rilasciata ed immota, dopo tutte le emozioni sofferte. Il quadrumane si disponeva sotto la mia mano, in modo che la sua testa fosse accarezzata. Intanto la capra, mogia, mostrando anch'essa vivi sentimenti di costernazione, a capo chino, mi leccava intensamente la mano. Si trattava di un bel caprone bianco, con una barba di uguale colore. L’aspetto dell’animale era tale da generare un profondo rispetto per esso. Se avessi dimenticato l’episodio di poco prima, avrei detto che si trattava di un vecchio saggio pensieroso. Anche il suo padrone doveva nutrire quello stesso genere di sentimenti, perché, da una targhetta di bronzo, che pendeva al collo dell'animale, si poteva leggere il nome che gli era stato imposto, Senator».
«Toh, Platone. Qui parlano di un tuo antenato. Avrà sicuramente avuto la tua solennità, anche se non credo che fosse della tua stessa razza. Questo, però, bisognerebbe chiederlo a Waldo Dodge». Platone drizzò per un momento la testa e la lasciò subito cadere. La notizia, evidentemente, non lo interessava per niente. Tramma riprese la lettura del papiro.
«La scimmia, intanto, mi era piombata addosso. Si era aggrappata a me, tenendomi le braccia intorno al collo. Strofinava la faccia sulle mie guance. Non ho offerto nessuna collaborazione all'animale, non perché non fossi capace di ricambiare i segni di affetto, ma in quanto ero ancora imbarazzatissimo. Altra gente si stava radunando intorno a noi. La scimmia rispondeva al nome, inciso su un pezzo di bronzo, di Malabestia. Ma, a parte la monelleria di poco prima, non mi pare dovesse meritare un tale appellativo. Il fatto che Malabestia fosse adorna di tutta quella ferraglia, mi causava altro disagio. Il padrone che, fino ad allora si era profuso in scuse in un modo che io non potevo bene intendere, ha raccolto le pochissime offerte che gli avari spettatori gli avevano buttato: qualche mela marcia e pochissime monete di valore irrisorio. Poi ha preso la scimmia in braccio e la catena che partiva dal collo del caprone. Si è inchinato davanti a me ed ha fatto per andare via. L’ho trattenuto. Quell'uomo era guercio. Aveva un’età indefinibile. Si leggevano sul viso, sul corpo, nelle vesti la sua perenne condizione precaria, gli stenti che pativa. La bocca aveva larghi vuoti ed i pochi denti, che mostrava, quando apriva la bocca per emanare suoni gutturali, erano neri, sgretolati. Sono stato colpito dall'unico occhio che gli era rimasto, perché l’altro era coperto da una benda sudicia. Emanava da esso una strana luce, che provocava in me sensazioni profonde di affetto. Gli Dei mi dicevano che quello che era un uomo giusto e buono. Le sofferenze gli avevano forgiato e modellato il carattere, ma non gli avevano procurato alcuna asprezza d’animo. Perciò gli ho fatto intendere di seguirmi. Ma non ho avuto necessità di indicare la strada, perché Senator ci ha preceduti, mostrando una conoscenza dell’itinerario che mi ha sorpreso.
A casa ho rifocillato l’uomo e le sue bestie. Ho letto un’estrema gratitudine negli occhi di tutti. L’uomo si è inginocchiato e mi ha baciato i piedi. L’ho sollevato, confuso. Il padrone degli animali non è stato in grado di dirmi niente della sua provenienza e della sua vita passata. È, infatti, muto. Non penso che sia originario di Pompei. Al di là delle croste di sporco che ne offuscano le carni, credo di indovinare un incarnato simile a quello di popolazioni che sono vicine ai miei connazionali. L’ho chiamato, perciò, con un nome fenicio, Pazuzu, È rimasto indifferente a questo nome. Forse l’amico è anche sordo. Ho condotto Pazuzu alle Terme in un’ora nella quale ero sicuro che non avrei trovato nessuno. Altrimenti, sarebbe stato sicuramente cacciato con grande nocumento. Non ho infatti che poco danaro guadagnato da me ed, al momento, mi è impossibile procurarmi delle essenze odorose. Con uno stratagemma, conto di condurre ai lavacri anche Senator e Malabestia.
Sono giorni, ormai, che sono ozioso, ma non me ne dolgo. Sento che, fra poco, avrò l’occasione di penetrare nei misteri di questa città peccaminosa. Se sono ozioso per quanto riguarda l’incarico dell’imperatore, non altrettanto posso dire per altre attività. Perché, specialmente la notte, tesso alacremente i miei tappeti. Ora ho anche degli amici da sfamare. Pazuzu dorme sul lectus lucubratorius. Di giorno, usciamo con Senator e Malabestia. Lascio fare Pazuzu, perché ho capito che non vuol fare perdere l’allenamento agli animali. Questi compiono volentieri i loro esercizi, perché vogliono molto bene a Pazuzu. L’uomo non infierisce sui suoi artisti con violenza o crudeltà. Quando usciamo in strada, tutti i bambini del vicinato si fanno intorno a noi e giocano con Senator e Malabestia, poi ci girano intorno ballando felici. Devo confessare che queste manifestazioni mi mettono un po’ a disagio».
«Ispettore, ho trovato un’altra iscrizione» Antipher era entrato con irruenza nella stanza. Aveva ancora in mano un pennello e una spugnetta intrisa d’acqua. «Venga a vederla».
«È possibile decifrarla?».
«Già l’ho tradotta».
«Ebbene, Maestro?» Tramma non aveva staccato gli occhi dal papiro, non per mancanza di riguardo verso il suo interlocutore. L’artigiano, a malincuore, perché sarebbe stato più felice se avesse potuto mostrare la sua scoperta, recitò a memoria:
«Sinopis Paetus, ti è andata male con gli esseri umani, ed ora provi ad insegnare alle bestie. Avrai senz’altro più soddisfazioni ad essere maestro dei tuoi simili».
«Italum acetum» commentò Tramma.
«Sì, italum acetum» convenne l’amico e se ne uscì un po’ deluso.
«Stamattina siamo stati svegliati da un grande rumore alla porta. Qualcuno bussava con grandissimo vigore. Ho aperto e, con sorpresa, ho visto sulla soglia due uomini dalla faccia terribile. 'Sei tu Sinopis?' mi ha detto uno dei due, con malagrazia. Ho avuto paura. Ero stato scoperto. 'Sappiamo che ospiti un guercio e due animali.' 'Sì' ho risposto.
Ero un po’ sollevato, perché aveva cominciato a capire. 'Ebbene, dici al guercio che stasera deve venire a tenere uno spettacolo in casa di Holconius Priscus. Digli di far esibire la capra e la scimmia. Facesse del suo meglio, perché il nostro padrone ed i suoi amici si vogliono divertire'.
I due hanno cacciato fuori i pugnali per far bene intendere cosa potrà capitare se Holconius Priscus ed i suoi non avranno il divertimento che si aspettano. Senza salutare, i due se ne sono andati via. Ho chiuso la porta e mi sono inginocchiato per ringraziare.
Questa è la conferma dei numerosi segni che ho visto finora. Ho, finalmente, l’opportunità di penetrare nella casa di un uomo potente. Perché ho già sentito parlare di questo Holconius Priscus. Andrò io con gli animali. Mi fingerò Pazuzu. In presenza di uno che credono muto e sordo, si parlerà molto liberamente».