Universale Remedium
XVII
Tariq si era comodamente sistemato sul lectus lucubratorius. Osservava il tappeto gessoso che era di fronte a lui, calco perfetto di quello che era stato tessuto da Sinopis duemila anni prima. Ora ne riusciva a vedere i colori ed il disegno. Gli sembravano pregevoli. Non poteva certo condividere il giudizio negativo di Secundus Celadus.
Fu preso da uno strano torpore. Non era più cosciente. Continuava ad avere la percezione di quello che aveva ammirato poco prima, anche se la visione risultava ora più sfocata. Un’altra immagine si sostituì alla prima. La vecchia signora Selfridge gli sorrideva nel suo modo insuperabile. «So, ispettore, di certe sue visioni fantastiche. Intendo dire di visioni straordinarie. Attraverso esse, riesce a ricostruire il filo delle indagini, nei momenti più difficili. Così, i fatti le si chiariscono, circostanze importanti, che nello stato di coscienza avrebbe sottovalutato, acquistano il loro effettivo rilievo, il quadro complessivo si compone ed ecco pronta la soluzione. Tutto ciò è formidabile. Ho conosciuto poliziotti di tutti i tipi, ma devo dire che, tra essi, lei è l’unico investigatore visionario...».
Alla porta qualcuno bussava. Il rumore si faceva sempre più forte. Tariq ritornò in sé. «E lei chi è?» chiese ancora insonnolito, al postino di Sua Maestà, che stava all'ingresso. «È lei Tariq Tramma? Ho qui un plico per lei. Firmi la ricevuta». Salutò e fece per andar via, ma ci ripensò. «La Municipalità qui è molto scadente. Non c’è l’ombra di un numero civico. Ho fatto una faticaccia per trovarla. Poi, qui tutto è in rovina. Non mi pare che ci sia la luce e, sicuramente, non c’è neanche l’acqua».
«No, l’acqua c’è» lo rassicurò Tramma.
«Comunque, se la passa male lo stesso. Se ne ricordi alle prossime elezioni».
Il destinatario del plico fece un cenno con la mano per dire che se ne sarebbe ricordato. Non ritornò sul lectus lucubratorius. Preferì sistemarsi sulla sella curule, dietro al tavolo. Alle solite cose, che erano in mostra sulla scrivania, si era ora aggiunta una minuscola anfora, che portava la sigla U.R. Tramma ed Antipher ne avevano trovate a migliaia nella casa di Secundus. Erano tutte ben tappate, perché non ne fuoriuscisse il liquido che vi era stato versato dentro, tanto tempo prima. I piccoli contenitori erano stati trovati su lunghi scaffali e dentro grandissimi orci, già pronti per la spedizione.
Tramma guardò il plico che gli era stato recapitato. Era abilmente confezionato con una carta spessa ed un robusto spago. «È quello che aspettavo da Mike. Ma è fatto troppo bene per essere opera sua». Larghi medaglioni di grasso qua e là sulla carta, rivelavano che l’allestimento era avvenuto nella cucina dell’agente, ad opera della sua efficientissima moglie. Aprì l’involto. C’erano fotocopie di rapporti ufficiali, fotografie e qualche ritaglio di giornale.
«Neanche un rigo di accompagnamento. So bene che al caro Mike la penna pesa moltissimo, ma poteva almeno mandarmi un salutino».
Cominciò, ad esaminare le carte. Le lucerne rimase-ro accese per tutta la notte, ma il loro chiarore fu, da un certo punto in poi, completamente inutile, perché, poco prima dell’alba, l’ispettore si addormentò sul tavolo.
Aveva impartito delle direttive molto precise ad Antipher e questi aveva accettato di buon grado, senza fare domande, di realizzare ciò che gli era stato richiesto. Per conto suo, Tramma passava il tempo a consultare le carte che gli erano state inviate, o a scrivere. Quando si trovava in momenti di difficoltà o, semplicemente, quando deside-rava riposare, si stendeva sul lectus lucubratorius o sul lectus cubicularis. Tutto questo durò fino al mattino in cui Antipher si affacciò alla porta dell’amico per annunciare:
«Sono pronto».
«Anch'io» rispose Tramma. Raccolse tutti i fogli che aveva riempito con la sua chiara calligrafia e si avviò.
Quel giorno la temperatura si era alzata e c’era il sole, anche se pallido. Antipher, che lo precedeva, gli mostrò tutto quello che aveva preparato nel Teatro Grande. Sulla scena, al lato destro, c’era un podio. Al centro di questo, sul davanti, su un cerchio di bronzo spiccava la fiera Licia Cocconia, con le zampe appoggiate sull’imboccatura di un’anfora, che recava l’iscrizione U.R. Tramma salì sul podio e posò su un leggio quello che aveva scritto. Non mancava niente. C’era anche una piccola lampada, che illuminava proprio la zona dove andavano messi i fogli. Antipher aveva pensato a lasciare pure una bottiglia di latte di capra ed un bicchiere. Tramma mostrò di gradire molto il pensiero, anche se trovò il contenitore troppo piccolo per le proprie esigenze.
Diede un’occhiata al Teatro Grande, che si apriva davanti a lui. Un magnifico colpo d’occhio. La cavea non era deserta. Qua e là, sulle gradinate, erano stati disposte le statue in bronzo degli ex ospiti della Red Pompeian House e dei tristi personaggi conosciuti dal povero Sinopis. In un settore facevano gruppo a sé Popidius Facus e Sextilius Gamurrus. Quest’ultimo era circondato da Animal Foetens, Tot Capita e Tubero, fusi nell’atto di voler difendere il loro capo. Si trattava, per quanto riguardava i pompeiani, di una ricostruzione largamente fantastica, anche se i resoconti di Sinopis e lo scheletro di Sextilius erano serviti per conferire tocchi di autenticità. Per quanto riguardava, invece, gli inglesi, Antipher aveva potuto lavorare sulle fotografie.
Al centro dell’orchestra erano state messe, fianco a fianco, le effigi di Secundus Celadus e di Celia Selfridge. Anche se l’accostamento poteva sembrare temporalmente incongruente, esso dava con efficacia l’idea di chi fossero stati i personaggi principali di due vicende che, in epoche diverse, si erano svolte nella città di Pompei.
Celia era ritratta in una delle sue fantastiche espressioni arcigne. Era sulla sedia a rotelle recuperata alla Red Pompeian House.
Il medico appariva immortalato in una posa molto distaccata. Sembrava quasi che dicesse:
«Non volevo venire qui. Mi ci hanno portato».
«Manca Petruchio. Perché non mi ha detto di farne la statua?» aveva chiesto Antipher.
«È presente anche lui, non si preoccupi» era stata la risposta sibillina dell’ispettore.
Mentre il realizzatore di quella mirabile messinscena si allontanava dal Teatro, Tramma continuava a gustare lo spettacolo, oltremodo eccitante. Da un altoparlante, nascosto chissà dove, uscì la voce dell’anziano artigiano:
«Ispettore non per fare una facile battuta, ma si può dire che sono proprio delle belle facce di bronzo». Tariq non mostrò di gradire l’intervento, che, a parte la vacuità, lo distoglieva dallo sforzo di concentrazione che stava facendo prima di iniziare.
Intanto, una grossa ombra, che aveva i contorni di una strana ellisse, si andò a proiettare sulla cavea, accompagnata da un fruscio di eliche in movimento. Quel rumore cessò e l’ombra si stabilizzò. Non c’era quasi vento. Tariq guardò in alto e vide un modello di dirigibile, non molto grande, ma che incombeva ugualmente sul Teatro. Il corpo volante era stato manovrato in modo tale da offrire, allo sguardo di chi stava sulla scena, la fiancata destra, occupata da una miriade di punti luminosi. Questi potevano comporre delle scritte, che, talvolta, davano l’illusione di essere in movimento. Apparve l’indicazione del nome del dirigibile: S.P.Q.R. 2 e, poi, un invito, che sembrava formarsi incessantemente: «Bibe U.R.».
Finalmente, Tramma iniziò a leggere. Andò subito al sodo di una delle questioni irrisolte. La sua voce era un po’ monotona e solo a tratti si rafforzava. «Signori. Petruchio non è fuggito, né è stato assassinato. Sin dai primi momenti del mio soggiorno qui, ho saputo questa indiscutibile verità. Non ho fatto rivelazioni, perché, da quando non sono a New new Scotland Yard, non ho più veste per ricercare in via ufficiale la verità». Tramma si interruppe e fece un cenno della mano, che fu fedelmente ripreso dall'occhio di una minuscola telecamera, che pendeva dalla S.P.Q.R. 2. Da un luogo sconosciuto, un uomo, che in quel momento fungeva da tecnico del suono, azionò un registratore. Sulla fiancata del dirigibile scorreva instancabilmente: «Il grande Petruchio». «Amici, romani, concittadini, prestatemi le vostre orecchie. Sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l’elogio». Non doveva essere evidentemente questo il punto che interessava, perché la voce si spense e si sentì il fruscio di un nastro che si muoveva velocemente. «Il mio cuore si trova là, nella bara con Cesare...». Un colpo di tosse e, poi, il silenzio. Seguì una voce lamentosa, flebile, che contrastava grandemente con l’annuncio «Il grande Petruchio» sul dirigibile. « Edna, hai visto il sangue? Mi è uscito il sangue dalla bocca. No, ti prego, non continuare a maneggiare, intorno al corpo, quello stupido cilindro. Finora, non ne abbiamo ricavato niente. Sono stato uno sciocco a seguirti qui. Mi sono illuso che mi avresti curato, che mi avresti ridato la salute. Ora, invece, sento che sto morendo... Ti rivolgo una preghiera. Quando tutto sarà finito seppelliscimi qui, sotto la scena. Fammi indossare una tunica, dipingimi il volto e mettimi una maschera sulla testa. Ne voglio una che rappresenti l’arte comica, che io non rinnego. Non dire a nessuno dov'è il mio corpo...» Le ultime parole di Petruchio erano state flebilissime, inframmezzate da gemiti. Nel Teatro risuonarono, anzi rimbombarono altri colpi di tosse e poi più niente. Dal dirigibile furono lanciati dei fiori verso il centro della scena, là dove era sepolto l’attore. Opportunamente, poi, «Il grande Petruchio » lasciò il posto all’invito commerciale «Bibe U.R.».
Tramma guardò severamente la statua di Edna Duckworth. La donna non rivelava alcuna emozione e continuava a tenere ben proteso il cilindro, collegato all'apparecchio che aveva in spalla, per cercare qualche tesoro sotterraneo sotto le gradinate o, forse, per curare a distanza, in modo del tutto alternativo, uno dei presenti.
Tramma riprese a leggere. «Ed eccoci a noi, signora Celia Selfridge. Anzi, a voler essere più esatti, signora Celia Tumbstone». Tramma fece una breve pausa. Nella cavea calò un silenzio che significava stupore e sbigottimento. La notizia non sembrava, invece, aver prodotto alcuna reazione nell'interessata. Si poteva, a questo punto, interpretare la sua eterna espressione arcigna, come determinata da un profondo disprezzo. «Il professor Tumbstone lasciò un’erede che salvasse il suo onore, proseguendo le ricerche e dimostrando al mondo che 1’U.R. esisteva». Sul dirigibile, il «Bibe U.R.» era seguito da un simpatico disegnino animato, che mostrava un'anforetta che versava il suo contenuto in un bicchiere. «La signora Celia Selfridge in Tumbstone aveva un altro valido motivo per continuare le sue ricerche. Era attaccatissima alla vita. Solo l’essere al mondo le poteva consentire di fare l’unica cosa che le dava soddisfazione: tormentare gli altri. Perciò il marito era diventato archeologo. Perché le lunghe campagne di scavi lo tenevano, quasi in permanenza, lontano da casa.
Ma come avrebbe potuto una donna anziana e, per di più, ridotta all'invalidità, perseguire quello che era diventato il secondo scopo della sua vita, cioè trovare l’U.R., l’Universale Remedium? Avvalersi di normali operai non le andava. Voleva creare con i suoi collaboratori un rapporto speciale, che le consentisse di soddisfare anche lo scopo primario della sua vita. Ebbe un lampo di genio. Si doveva circondare di rifiuti della società, di evasi o di fuggitivi, che potesse tenere in pugno e sottoporre alle prove più crudeli. L’occasione propizia la procurò indirettamente il buon Petruchio, con l’esibizione della Compagnia St. John on Sebetus, nella straordinaria messinscena del Giulio Cesare. Tutti quelli che parteciparono, infatti, alla famosa rappresentazione ebbero un triste destino. Essi si trovarono nell’impossibilità di continuare nell’attività artistica, che, d’altronde, poco si adattava alle loro risorse professionali. Furono, inoltre, messi in condizione da qualcuno “molto in alto” di non trovare nessun tipo di lavoro. Caddero necessariamente nel delitto, anche per la tendenza alla depravazione che albergava nei loro animi». Tramma sollevò la testa dai fogli e guardò tutti i compari con aria severa. Si ricordò, vedendo due di loro, che aveva omesso una precisazione. «Cedric e Pat venivano, invece, da diverse esperienze delinquenziali, addirittura di tipo cosmico. Di loro parlerò in prosieguo». L’ispettore si avvide che la bottiglia di latte era vuota, perché da essa si era già servito generosamente. Il dirigibile si allontanò subito e ritornò poco dopo, facendo calare, con un verricello, una brocca sul podio. Sul corpo volante si disegnò un’eloquente scritta: «Deus ex machina». Antipher stava, a tratti, esagerando, più che soddisfatto dell’allestimento, curato anche nei particolari più insignificanti.
«Esaminerò ora le posizioni singole, cominciando ovviamente dal maggiore Abercrombie. un riguardo che gli è dovuto, considerato il suo grado». L’ispettore usò un tono ironico che si spiaccicò, senza forarla, contro la marziale maschera bronzea del militare. «Dovrei dire, se voglio essere coerente con la realtà, il soldato semplice Gordon Abercrombie. Il nostro uomo, infatti, fu degradato ed espulso con disonore dai ranghi dell’esercito, per aver rubato la cassa del suo reggimento. Fu colpa di una donna di cui si era invaghito ed alla quale aveva fatto regali di valore spropositato. Il disonore fu poca cosa, però, in confronto alle reazioni dei gurkha. Per sottrarsi alla minaccia delle lame affilate dei suoi ex soldati, Abercrombie pensò di vestire i panni dell’attore.
È risaputo che i gurkha non amano il teatro e meno che mai Shakespeare.
Dopo il fiasco del Giulio Cesare, si trasformò, per sopravvivere, in venditore porta a porta di congelatori. Abituato al comando, non poteva tollerare che, a seguito della glaciazione, le vendite di questi elettrodomestici fossero crollate. Perciò, ne ordinava, armi in pugno, l’acquisto alle massaie. Contro di lui furono emessi numerosi mandati di cattura, ai quali riuscì sempre a sfuggire. Quando capì che le sue ore di libertà erano contate, perché era stato individuato il suo rifugio, accettò l’ospitalità di Celia Selfridge. Come tutti gli altri ospiti della Red Pompeian House, me eccettuato, naturalmente, sapeva che in quella pensione, al centro di una landa desolata, la polizia non avrebbe mai ficcato il naso».
Tariq Tramma guardò verso un’estremità della cavea, dove era stata sistemata, isolata dalle altre, la statua di Waldo Dodge. Riprese, poi, a leggere: «A volte, lo splendido isolamento diventa un peso insostenibile per l’intellettuale. Perciò egli cerca la popolarità.
Il nostro Waldo Dodge ha provato, invece, solo l’ebbrezza dell’impopolarità. La prima volta con il Giulio Cesare, la seconda a seguito di una sua azione banditesca. Il nostro sequestrò il più importante editore di New London. In cambio della liberazione dell’ostaggio non chiese danaro, ma la pubblicazione integrale dei suoi inediti, in ventotto volumi, rilegati in vera pelle con fregi in oro.
Dodge riuscì a sottrarsi alla cattura fortunosamente, mentre la polizia faceva irruzione nel suo covo per liberare il sequestrato.
Passiamo ad esaminare la posizione di Edna Duckworth. La signora è americana. Per sfuggire alla giustizia del suo paese, si imbarcò, clandestina, su una nave rompighiaccio ed approdò in questa terra, quando essa era già diventata il Regno Unito.
Negli Stati Uniti, Edna aveva collezionato una sfilza interminabile di denunce, per esercizio abusivo della professione medica. Sosteneva di poter curare, a distanza, i suoi pazienti. Tra gli ammalati che ricorsero alle sue prestazioni, si registrò un tasso di mortalità pari all'ottantacinque per cento. I sopravvissuti si erano rivolti in tempo ad un vero medico.
Avendo amato sin da giovanissima il teatro elisabettiano l’Edna fuggitiva irretì il povero Petruchio e lo convinse ad accettarla nella sua compagnia. Petruchio fu l’unico, a New London, a credere nelle attività terapeutiche della Duckworth. Tanto che seguì la donna a Pompei, quando essa, avvertita di una domanda di estradizione della giustizia americana, accettò l’interessata ospitalità di Celia Selfridge.
In verità, Petruchio preferì cambiare aria, anche per motivi di salute. Un gruppo di giuristi, a seguito di autorevoli interventi, stava studiando la possibilità di incriminarlo per lesa maestà.
Passiamo a Joseph e Mary Bollinger. Guardateli. Sembrano delle persone rispettabili? No, non lo sembrano e non lo sono». Effettivamente, l’aria spavalda e sfrontata di Joseph non poteva ispirare un giudizio positivo. La moglie era raffigurata nell'atto di stringersi al braccio dell’uomo, per ricavarne protezione. «Non ci inganni, signora Bollinger. Non dia ad intendere di essere la parte più debole della coppia. L’atteggiamento di suo marito, rivelatore, invero, delle sue umili origini, è solo un paravento. In realtà suo marito è un uomo fragile ed indifeso. Sin da bambino è stato così. Da quando rubava le biglie ai suoi coetanei, minacciandoli con una fionda carica. Già allora mostrava insicurezza. In realtà, è Mary il motore della compagnia. Sa fingere molto bene: svenimenti, gemiti, crisi di nervi. Il suo repertorio è molto vasto.
Vi conosceste alla Compagnia di St. John on Sebetus e lì uniste i vostri destini. Dopo il tonfo vi dedicaste ad imprese banditesche. Chi non ricorda la banda dell’analgesico? Mary Bollinger entrava nelle farmacie di periferia, dopo aver detto con voce flebile: 'Mi fa male la testa'. Simulava uno dei suoi mancamenti. In realtà, creava confusione nel negozio. Allora entrava in azione il marito che, con la pistola spianata, portava a compimento la rapina. Anche a voi, ingrati, Celia Selfridge ha aperto le porte della sua casa, in un punto ignorato dalle forze di polizia.
Di questa interessata ospitalità hanno beneficiato anche Cedric e Pat. Ve ne state là, buoni, inespressivi. Fate bene a stare in silenzio».
Tramma alzò la voce. «L’avete combinata proprio grossa. Voi non potete portare a scusante esperienze teatrali andate a male. Anche se, ad onor del vero, voi provenivate da una compagnia. Fuggivate dalla polizia perché avevate militato nella famigerata Compagnia sindacale dell’Asse, responsabile del terribile cataclisma meteorologico di cui paghiamo le conseguenze». Pat non tormentava per la tensione, le mani, sulle quali erano mirabilmente ritratti i suoi geloni, e, quindi, la sua espressione rimaneva immutabile, senza mostrare alcun dolore. Il gigante stupido, che le era a fianco, sembrava colto nell'attimo di intervenire, anche se la mancanza della guida autorevole di Celia Selfridge, non gli faceva prender partito. Era, quindi, costretto a rimanere immobile.
«La tirannica signora Selfridge aveva assegnato, a ciascuno degli ospiti della Red Pompeian House, una zona da scavare, nella parte inesplorata. Aveva capito che bisognava mantenere inflessibilmente l’ordine. Ciò nonostante ciascuno degli improvvisati archeologi sognava di essere lui a mettere per primo le mani sull'U.R., sull'Universale Remedium e di fuggire con il miracoloso preparato. La giustizia si sarebbe dimostrata senza dubbio clemente con l'autore di una così grande scoperta.
La signora Selfridge aveva delegato le funzioni di controllo a Cedric, che, essendo il più colpevole di tutti, era il più fedele e riconoscente.
La povera Celia già pregustava il trionfo. L’unica nota negativa era che Lord Diggers era morto. Che faccia avrebbe fatto di fronte alla prova che il professor Tumbstone aveva ragione
Quanti affanni intorno all'U.R., è vero, Secundus Celadus?»
Il medico non mosse un muscolo, sebbene molti spiccassero sulle braccia di bronzo. L’aspirante imperatore guardava lontano, verso un punto dell’infinito segnato dalla sua mano sollevata.
«L'U.R. ha creato scompiglio non solo tra gli ospiti della Red Pompeian House. Nell’antica Pompei tutto un mondo criminale aveva ruotato intorno al medicamento.
La ricerca e la diffusione dell'U.R., destinato a risanare l’umanità sofferente, erano stati finanziati da truffe, assassinii, ruberie di ogni genere, ai danni dei privati e della collettività.
Non si è mai vergognato, Secundus Celadus di lavorare con gente come Popidius Facus, Sextilius Gamurrus, Tubero, Tot Capita e Animal Foetens?
Immagino la sua scusa. Il fine giustifica i mezzi. Quale fine, signore? Quello di aiutare il prossimo, o quello di assecondare la sua sfrenata ambizione?
Sinopis Aegyptius, questo mio valoroso e sfortunato collega, la inchioda alle sue pesanti responsabilità. Qui ho le prove» Tramma esibì al muto uditorio un fascio di papiri, scampati alla furia distruttiva che aveva investito Pompei.
«Il mio egregio collega non ha avuto, però, il tempo, perché colpito dalla vostra collera omicida, di completare le indagini».
Da come si muoveva, si sarebbe detto che Tramma si stava preparando ad un colpo ad effetto. Infatti, gridò con voce stentorea, adeguata alla romanità solenne di quel luogo: «L’U.R. è una miserabile truffa. Un tecnico di stimato valore ha eseguito le analisi sul residuo secco che era conservato in decine di queste anforette. Risultato: l’U.R. non ha alcuna proprietà terapeutica». L’uditorio era rimasto visibilmente impressionato da quella rivelazione-bomba, tanto che calò un silenzio, gravido di significato, in tutta la cavea.
Sulla fiancata del dirigibile apparve una scritta luminosa «Bibe U.R. Bevi U.R. - non allunga la vita - ma la rende frizzante - e, in più, disseta».
La più seccata tra tutti era Celia Selfridge. Ma mascherava bene il suo stato d’animo sotto la sua aria arcigna.
Il più lieto era, invece, Popidius Facus al quale l’idea dell’U.R. sembrava, certamente, insuperabile e da aggiungere un giorno o l’altro, alla schiera dei suoi prodotti.
Tramma era eccitato. «Siete ammutoliti tutti. Non parlate più? Cosa hai da dire, Secundus Celadus? Oggi ti avrebbero definito un criminale in guanti gialli. In favore di gente come te, si è sempre disposti a cercare la nota gentile. Anche se si tratta di delinquenti incalliti che gettano città e, talvolta, interi paesi nell'abisso profondo dell’abiezione. La corruzione, il malcostume divengono così radicati che anche la posizione dei buoni, degli onesti diventa equivoca. Ma io chiedo ai buoni: ‘perché avete tollerato questo insostenibile stato di cose? ‘ Fortunatamente, sei stato spazzato via lo stesso, Secundus Celadus. Le fonti storiche più autorevoli non ti dedicano neanche un rigo. Segno che sei perito insieme ai tuoi infami compari. Con te è stato seppellito anche il sogno di una depravazione universale, con centro Roma, della quale avresti retto le sorti come imperatore». Tariq Tramma si era fatto rosso in viso e non seguiva più monotonamente le pagine scritte. Improvvisava a braccio, con foga che era ignota a chi lo conosceva. L’occhio della telecamera sembrava scrutarlo preoccupato. «Per infrangere i tuoi sogni criminali è dovuta, allora, intervenire la collera della natura, l'ira degli Dei che non ha potuto più distinguere tra buoni e cattivi e ha dovuto generare un terribile cataclisma, che ha colpito tutti».
Con l'aria di un predicatore ispirato, Tariq Tramma, così, infine, concluse: «Ed ecco la necessaria fine della corrotta città di Pompei... Aveva posato le mani sul podio, con gesto di indubbio effetto, comune a tanti abili oratori, che sentì la fragile impalcatura vibrare. Anche i piedi non avevano più uno stabile appoggio. Davanti a lui le gradinate oscillavano paurosamente. Le pietre cadevano, la polvere si levava. Dai gradini, divenuti una fragile base di appoggio, tutte le statue rovinarono giù, verso l’orchestra, seppellendo Secundus Celadus e Celia Selfridge.
Tramma giaceva, ora, disteso orizzontalmente sulla scena sopra il podio rovesciato. La struttura del quale aveva attutito la sua caduta. Il terremoto sembrava non avere mai fine.
Sulla fiancata del dirigibile, che era l’unica cosa a non risentire del cataclisma, apparve la scritta: «Mio Dio».
Il terremoto durò poco più di un minuto, ma, a chi fu coinvolto nei suoi effetti, quel tempo sembrava che non avesse mai fine.
Quando tutto cessò, tra le macerie del Teatro Grande apparve Mastro Antipher. L’artigiano era un po’ ammaccato, pieno di polvere, ma salvo. Si precipitò a soccorrere Tariq Tramma e lo aiutò a rialzarsi. «Ispettore, è ferito? No, sembra di no. Gran parte dei ruderi sono crollati, ormai rimangono solo mucchi di pietre». Tariq Tramma era ancora istupidito per lo spavento, ma manteneva un’aria stranamente ispirata. L’ispirazione lasciò il posto al terrore, quando gli sembrò di vedere un grigio pennacchio alzarsi dal Vesuvio. «Sarà bene andare via di qua» riuscì a dire. I due recuperarono una motocarrozzetta che era appartenuta a Cedric e fuggirono senza una meta. Antipher si era messo alla guida. Tramma giaceva nel carrozzino. L’ispettore guardava la strada, che si apriva davanti a loro, con gli occhi sbarrati. A malapena, al di là degli scoppiettii del motore asmatico, sentiva l’eco, via via indebolito, dai crolli che segnavano gli ultimi momenti dell’antica città dissepolta. Sotto le antiche pietre giaceva senza vita un un becco di razza Saanen. Platone portava sul corpo segni rossi per le ferite mortali inferte dal cataclisma.
Una catena di violentissime esplosioni squarciava il vulcano. Una pioggia di ceneri e pomici cadeva su tutto il territorio circostante. Mai uomo aveva assistito a un fenomeno così devastante. L'eruzione del 79 era stata poca cosa in confronto. Torrenti di lava e fango sommersero ogni cosa. Di New London e di quello che c'era stato prima di essa, cancellato anche in spirito da una perfida macchinazione inglese, non c'era più traccia. Singolare nemesi...