Universale Remedium
IX
Tramma si svegliò di soprassalto. Aveva sognato una presenza estranea. Qualcosa, che era metà donna e metà capra, della quale aveva l’inconfondibile odore ircino, si era intrufolata nella sua stanza. Aprì gli occhi e sbatté le palpebre. Pat era lì che aspettava, in silenzio, il suo risveglio, con le braccia conserte. «Devo aver dimenticato la porta aperta ieri sera. Grossa imprudenza, per via dei tipacci che girano per Pompei». Notò che la giovane donna, come al solito, aveva le mani coperte da spessi guanti di lana, per ripararsi dal freddo pungente del mattino. «Brutta cosa per le povere capre avere a che fare con quelle dita» si disse Tramma, pensando alla delicata opera di mungitura compiuta dalle mani piene di geloni. Si era spesso chiesto se la cosa poteva avere contraccolpi negativi sulla qualità del latte.
«Cosa fai qui?».
«Mi ha mandato la signora. La vuole».
«Celia Selfridge?».
La donna mosse brevemente la testa per annuire.
«Evidentemente qualcosa che ha a che fare con Petruchio» suggerì ad alta voce a se stesso, perché tanto Pat non confermò. L’uomo scese dal letto e raggiunse la sella curule, dopo aver infilato gli zoccoli. Intanto Pat, dopo aver passato la mano sul fazzolettone che aveva in testa ed aver biascicato un saluto, si allontanò.
Tramma iniziò a giocare con lo stilo che era sui tavolo «Se ne è andata. Le volevo chiedere di venirmi a portare il latte di capra. Basta che metta un secchio pieno ogni giorno davanti alla porta». Intinse la penna di bronzo nell'inchiostro e scarabocchiò su un foglio. «Mastro Antipher è un perfezionista. Mi ha lasciato finanche dei papiri per gli appunti». Quello stilo di metallo scriveva decisamente male. E non era colpa del suo amico artigiano. Gli era stato spiegato che i romani preferivano, piuttosto, usare penne di uccello, tagliate ad un’estremità.
Aveva indugiato fin troppo. Si risolse a prepararsi ed a lasciare la camera. Prima, però, dette un’ultima occhiata in giro. Constatò, ancora una volta, che la ricostruzione era stata condotta in modo eccellente. Nessuno avrebbe potuto sospettare che le assi, che coprivano tutte le pareti ed il vano nel quale era nascosta la cassaforte, fossero, in realtà, come ante di un armadio. La circostanza, poi, che la ricostruzione era avvenuta impiegando uno spesso impasto gessoso, rendeva quei nascondigli ancora più sicuri. Se qualcuno, molto sospettoso, avesse provato a batterci le nocche sopra, non avrebbe avvertito il rumore sordo, rivelatore del vuoto.
Chiuse la porta di ingresso e constatò che la serratura funzionava in modo davvero egregio.
Trovò Celia Selfridge davanti alla porta della camera di Petruchio. « Qualcuno ha forzato la serratura. C’è un indescrivibile disordine dappertutto. Volevo entrare con un duplicato di chiave che, naturalmente, è a mia disposizione. Giusto per perquisire la stanza. Mi hanno preceduto. È veramente deplorevole ficcare il naso negli affari degli altri. Naturalmente, ho dato uno sguardo là dentro, ma non ho trovato niente di interessante. Ebbene, ispettore, l’ho fatta chiamare perché lei scopra cosa manca».
La donna fu definitiva.
«Ecco qui le impronte digitali di tutte le persone che sono ospiti della Red Pompeian House, escluse le sue, che non posseggo. Ci sono anche quelle di Pat, di Cedric e di Petruchio. Le mie, ovviamente, non ci sono. Ho già ammes-so di essere entrata nella stanza». Detto questo, Celia Selfridge, manovrando da sola il suo mezzo di trasporto, si allontanò, scomparendo nel corridoio, che, dopo qualche metro, piegava ad angolo retto.
Grande era la confusione che regnava nel piccolo vano. Tramma pensò subito che l’unico posto dove era stata fatta pulizia, dopo le intrusioni, era la scrivania. Appariva quasi completamente ripulita e senza polvere, al contrario degli altri mobili della stanza, coperti di carte e di capi di abbigliamento. In un angolo della scrivania, accuratamente disposti, c’era tutto il necessario per rilevare le impronte digitali ed una brocca di latte di capra. Vedendo quest’ultima, l’ispettore pensò: « La vecchia vuole che impieghi al meglio le mie capacità. Temo che sia un incarico assolutamente impossibile da espletare, anche se ne bevessi una cisterna ». Dette, comunque, un’occhiata in giro. Niente sembrava mancare. Almeno, se c’era qualcosa che Petruchio si era portato via, questa non apparteneva alla massa degli effetti personali di utilità per una persona che doveva trattenersi a lungo in una pensione. Si avviò verso la scrivania, fece per sedersi dietro, ma si accorse che l’imbottitura della sedia era stata asportata. Dispose quello che rimaneva di un cuscino sulle molle e si sedette. Guardò i cassetti. Ce ne erano diversi, ai due lati. La maggior parte erano stati tolti ed il loro contenuto allagava il pavimento. Guardò in quelli che erano rimasti al loro posto. Anche in essi qualcuno aveva rovistato. Si soffermò su fotografie che raffiguravano Petruchio in scena. Era proprio come Cella lo aveva descritto. Interruppe la sommaria indagine. Versò il latte nel bicchiere, che gli era stato preparato, e bevve a lunghe sorsate. Si asciugò soddisfatto, con la mano, i lunghi baffi spioventi e più sommariamente il bavero del giaccone di montone, che si era sporcato. Riprese a guardare nel cassetto. C’erano, per lo più, ritagli di giornali. Qua e là, tra le carte ingiallite, spuntavano lunghi elastici. Tramma dispose sul tavolo i pezzi di carta stampata. Si trattava di cronache teatrali e di articoli apparsi su riviste specializzate, sia italiane che straniere. Il caso aveva voluto che Tramma, per riempire i suoi momenti d’ozio, dopo l’allontanamento da New new Scotland Yard, si era messo a studiare l’italiano. Non riusciva a parlare quella lingua, ma era in grado di leggerla in maniera abbastanza spedita.
Gli riuscì di orientarsi facilmente tra tutta quella roba che parlava di Petruchio. L’ispettore poté farsi un’idea, anche se per via indiretta, del tipo di commedie che Petruchio aveva scritto. Consultò, per questo, delle recensioni che, per certi versi, non lo convincevano. Non ebbe dubbi sulla buona qualità delle commedie. I lavori risultavano accattivanti, anche nei mediocri resoconti dei giornalisti. La prima commedia di cui aveva trovato traccia era: “Il sussidio di disoccupazione”. Il protagonista aveva un cognome molto comune nella città, che era, prima della glaciazione, al posto di New London. In pratica era come se si fosse chiamato Smith. Povero in canna, non conosceva alcun mestiere. Era ultimo di undici figli. Le magre risorse della famiglia non gli avevano consentito di compiere studi regolari e di affacciarsi, quindi, sul teatro della vita con un minimo di conoscenze professionali. Da piccolo, aveva fatto lavori non specializzati, per procurarsi pochi soldi da consegnare, fino all'ultimo, alla madre. Sempre senza specializzarsi, questo Smith locale si era sposato ed era arrivato anche lui, come il padre, ad avere undici figli. La prima di questi, che aveva preso marito in tenerissima età, era già riuscita a mettere al mondo quattro creature.
La situazione per lo Smith locale si faceva ogni giorno più difficile. Doveva sfamare la moglie, undici discendenti diretti, quattro nipoti ed il genero disoccupato. Ogni mattina, Smith usciva e si proponeva per i lavori più umili. Quasi sempre ritornava a casa senza aver raggranellato un centesimo. Un giorno, ebbe un lampo geniale di ispirazione. Vide davanti a sé la strada per uscire da quella pesante situazione. La mattina successiva, andò, per la prima volta nella sua vita, all’anagrafe. Rilevò tutti i nomi di quelli, della sua età e con il suo cognome, che erano morti, per lo più di stenti, in quel periodo. La rilevazione durò molti giorni, perché gli Smith erano una legione sterminata. La moglie, in casa, per contribuire alla disastrosa economia della famiglia, aveva accettato, fino ad allora, piccoli lavoretti e commissioni da qualunque parte provenissero, anche dalla malavita. Poiché la donna, pur essendo rigorosamente non specializzata, era in possesso di qualche tendenza artistica, istintiva e non coltivata, le era stato spesso affidato il compito di dipingere delle false carte di identità per i delinquenti locali. Fu un gioco per Smith utilizzare l’abilità della moglie per il benessere della famiglia. Si fece fare numerose carte di identità, intestate agli Smith morti. I documenti di identificazione gli servivano per portare a compimento il suo diabolico piano. Con le carte di identità riuscì a riscuotere i sussidi di disoccupazione degli Smith defunti, senza generare sospetti. Rispondeva, infatti, con molta convinzione al nome di Smith. L’ufficio dove pagavano le indennità di disoccupazione, inoltre, non era in grado di stabilire alcun utile controllo, per il tanto lavoro arretrato determinato dalla cronica mancanza di personale. Come lo stesso Smith spiegava, quell’ufficio mancava di personale che lavorasse. Smith diventò in breve milionario; gli altri Smith, infatti, che non erano stati tanto abili da inventare un analogo meccanismo per la sopravvivenza, stavano morendo come mosche. Smith conquistò la ricchezza, non la felicità. A forza di assumere identità di altri, finì col perdere la sua. Da quel momento trascinò la sua vita chiedendosi continuamente: «Chi sono io?». Non sapeva quale Smith fosse. Finì col diventare solo uno strumento nelle mani di sua moglie e dei suoi figli. Questi ultimi, non essendo più poveri, avevano smesso di costituire una famiglia miserabile e felice. Erano diventati una massa amorfa di canaglie che pensavano solo al danaro. Il lavoro teatrale si concludeva drammaticamente. La scena rappresentava un ristorante alla moda, molto costoso. Quella, che era stata una bella famiglia felice, gozzovigliava intorno a più tavoli, solo apparentemente accostati. Il povero Smith era al centro, attorniato dai commensali famelici. L’uomo si grattava la testa. Aveva tutta l’aria di pensare intensamente. Non partecipava a quella che sembrava la generale felicità della sua gente. Ad un tratto, non potendo più trattenere l’idea fissa che gli tarlava il cervello, saltò come una molla sul tavolo, chiese silenzio e disse: «Chi sono io?» Il suo primogenito maschio, che era arrivato anche lui a undici figli, facilitato da un provvidenziale doppio parto quadrigemino della moglie, gli rispose. Il figlio alzò il bicchiere colmo di vino rosso e disse: «Papà sei una miniera». Sipario.
Il giornalista sottolineava, dopo aver parlato dei contenuti della commedia, l’osservazione attenta e lo studio intenso, da parte dell’autore, della genialità del popolo della sua città. Gente che era capace di fare di necessità virtù, di sublimare lo spirito imprenditoriale. Quel popolo era capace di trasformare il piatto e freddo esercizio manageriale in superiore capacità di esprimere risultati usando unicamente, come materia di base, la gioia di vivere. Entrando nello specifico teatrale, il giornalista vedeva nella perduta di identità di Smith echi filtrati e rielaborati, alla luce della particolare situazione locale, nella quale l’autore era vissuto, del migliore Pirandello. Erano presenti, ovviamente, anche i temi tipici della grande commedia dell’arte.
Tariq passò, poi, a «Il ritorno di Reginaldo». La guerra era finita da poco. Reginaldo, già prigioniero ed ora libero, era finalmente ritornato nella sua città. Lacero, scalzo ed affamato, era riuscito ad arrivare al vicolo dove abitava. Aveva percorso duemila chilometri, millenovecento a piedi e cento con mezzi di fortuna. Intontito com'era, aveva riconosciuto la sua strada dai cumuli di immondizia. «Eravate piccoli e ora vi siete fatti grandi assai». Era commosso. Respirò profondamente l’aria di casa. Qualcuno gli si fece incontro e premurosamente lo avvertì. Tutta la famiglia aveva fraternizzato con le truppe di occupazione. La moglie vedeva spesso un attempato maggiore, la figlia un giovane tenente. L’unico figlio maschio, nel quale Reginaldo aveva riposto tutte le sue speranze di padre affettuoso, da quando gli altri otto figli maschi erano morti molti anni addietro in una tremenda sciagura, era dedito al contrabbando, in combutta con furieri disonesti. Eppure, Reginaldo aveva lasciato la sua famiglia povera, ma onesta.
Affranto, ritornò sui suoi passi ed andò a vivere con un suo ex commilitone. L’amico, al ritorno dalla guerra, si era trovato nella stessa situazione di Reginaldo. Però lui aveva trovato la forza di cacciare di casa tutti i suoi parenti. Ora era solo nell'appartamento. Si era pentito e piangeva sempre. Reginaldo pensò alle disgrazie sue e del suo amico. Trovò una soluzione idonea, tale da consentirgli di riaffermare la sua autorità sulla famiglia, senza esiliare, né soffrire. Invitò un generale dell’esercito straniero a mangiare un piatto locale. Una focaccia cosparsa di salsa di pomodoro, condita con formaggio, basilico ed olio, e cotta nel forno a legna. Reginaldo fece ubriacare l’alto ufficiale e gli rubò l’uniforme. L’indossò, si fece crescere una lunga barba e tornò a casa sua. Nessuno dei congiunti lo riconobbe. Il falso generale ebbe buon gioco. Scacciò il maggiore, il tenente e i disonesti furieri. Si piazzò in casa e tiranneggiò la famiglia. Tutti furono intimoriti dalla presenza del graduato. In breve, riuscì ad ottenere un ordine inflessibile. Tutti si pentirono, trovarono un lavoro e condussero una vita morigerata. Un giorno, Reginaldo, pensando che la sua famiglia fosse ormai irreversibilmente cambiata, nel corso di una drammatica e memorabile scena madre, si tolse la divisa e rivelò chi era in realtà. La moglie lo riconobbe subito, da una vecchia cicatrice sul polpaccio. Sedette affranta su una sedia, piegò la testa sul petto e mormorò: «Non si fa così, non si fa così. Un buon marito, un buon padre non inganna la moglie, i figli...». La figlia, in ginocchio urlava: «Sei falso, sei falso». Il figlio, più pratico, uscì e ritornò subito dopo con la polizia militare, che portò via Reginaldo. Condotto davanti alla corte marziale, l’uomo chiese perdono e clemenza ed offrì la focaccia col pomodoro a tutti. Sipario.
Il critico, tessendo sperticate lodi del lavoro, metteva l’accento sulla negatività del personaggio Reginaldo. Uomo arido, che non riusciva ad esprimersi attraverso la gioia di vivere. Reginaldo era un vinto in partenza. Si capiva che non sarebbe stato capace di ottenere clemenza dalla corte, nonostante l’offerta delle focacce. La famiglia avrebbe avuto bisogno del suo cuore, non delle sue tendenze autoritarie. Come antecedenti letterari del lavoro di Petruchio, il recensore non scorgeva la commedia dell’arte. Al giornalista piaceva, invece, ricordare l’influenza dei temi omerici. La divisa da generale come cavallo di Troia. Reginaldo come Ulisse. Solo il finale era ambiguo.
Tramma, con esercitato colpo d’occhio, tirò fuori l’ultimo pezzo che intendeva leggere. Con esso avrebbe concluso il breve, ma significativo viaggio all'interno dell’opera di Petruchio. «Priscilla la Processionaria è commedia o tragedia?» Questo era il titolo che campeggiava sulla carta ingiallita, accuratamente ritagliata e piegata. «Certo, il lavoro è l’opera di un artista maturo» concludeva in grassetto, ma in caratteri più piccoli, l’articolista. Priscilla era una povera vedova che, per tirare avanti, vendeva cravatte di seta thailandese, falsa, per evitare accuse di contrabbando. Non poteva permettersi di violare impunemente la legge, perché doveva sfamare sei figli. Malgrado si fosse sottoposta a cure costose, non era riuscita a mettere al mondo altre creature. Il marito, profondamente addolorato per la quasi sterilità di Priscilla, era morto di crepacuore.
La donna esercitava il suo commercio ai margini di un ritaglio di verde, dove sorgevano pini secolari. Aveva la sua mercanzia in una carrozzina e teneva con sé, in un altro mezzo di trasporto per bambini, il suo ultimo nato. Non aveva a chi affidarlo, così, per evitargli i pericoli della strada, lo metteva nella carrozzina, benché avesse nove anni. Gli altri cinque, per aiutare la baracca, andavano tutti a lavorare. Un brutto giorno, un pesante, grosso ramo fradicio di pino cadde e colpì il povero bimbo. Il piccolo riuscì a sopravvivere, ma l’incidente lo aveva segnato irrimediabilmente.
Pazza di dolore, Priscilla, in un drammatico confronto con il pino feritore, gli promise che avrebbe distrutto lui e tutta la sua razza. Priscilla corse subito dal sindaco. L’amministratore era roso dal tarlo dell’ambizione e pronto a farsi irretire dalle lusinghe della corruzione. Priscilla riuscì a spiegare all'uomo di governo, pur essendo ancora pervasa dal furore di madre offesa, i suoi propositi di vendetta e la loro origine. Il sindaco si mostrò interessatissimo. Abbracciò alla fine la donna. L’uomo piangeva. «Soffro di febbre da fieno». Priscilla aveva sfondato una porta aperta. Il sindaco fece subito chiamare l’assessore all'edilizia, che era un uomo di legge, come tutti i componenti della giunta. «Deve dare uno scopo nobile alla sua missione. Abbatta, pure, tutti gli alberi della città, e al loro posto costruisca case abusive».
«Perché abusive?» chiese la donna.
«Non le possiamo dare la licenza. Ma, quando si saprà da quale nobile motivazione è animata, nessuno oserà contrariarla».
Seguendo i lungimiranti consigli dell’assessore all'edilizia, Priscilla divenne in breve molto ricca. L’accumulazione della sua fortuna, incerta agli inizi, segnò una svolta positiva quando il sindaco e l’assessore caddero sotto i colpi di una banda di amministratori rivali. Alla fine, in un vecchio parco pubblico ormai senza alberi, disseminato di villette unifamiliari, un professore di botanica, segretamente innamorato della donna, le chiese la ragione del suo comportamento. Priscilla indossava una pelliccia di visone su un vestito a fiori. Andò verso il centro della scena ed additò suo figlio invalido. Urlò: «L’ho fatto per lui, la carne della mia carne». Sipario.
Non si poteva parlare di commedia dell’arte. Il giornalista era, invece, obbligato a parlare della tragedia greca. Priscilla, privata di un’intensa prolificità, aveva sublimato il suo odio e lo aveva riversato verso altre forme di vita, dalla proliferazione inesauribile. L’articolista aveva il sentore che l’incidente, che aveva colpito il figlio di Priscilla, era un inconscio pretesto per scatenare una superiore passionalità. Grande era stata la forza dell’autore nel ritrarre un fulgido esempio di maternità, non infrequente tra le donne della città che, prima della glaciazione, era stato al posto di New London.
Tramma bevve altro latte e poi passò a ritagli su aspetti poco apprezzabili. Erano sfoghi di attori mediocri che, esclusi per i loro demeriti artistici dalla compagnia, si vendicavano schizzando il veleno del pettegolezzo. Secondo quegli attorucoli, intervistati da giornalisti ancor meno scrupolosi di quelli che avevano recensito i lavori del Maestro, Petruchio toglieva la battuta ai suoi compagni, per essere sempre al centro della scena. Altri miserabili dichiarazioni gli attribuivano un carattere tremendo, una totale mancanza di sentimenti, una spietata determinazione nel colpire gli altri. Tariq, che sapeva leggere tra le righe, aveva raggiunto la convinzione che Petruchio, in realtà, era un uomo esigente nei suoi rapporti con gli altri, perché chiedeva prima di tutto a se stesso il massimo, senza risparmiarsi.
Con un deciso gesto della mano, spazzò la scrivania e fece cadere tutta la carta stampata. Si decise a raccogliere le impronte. Non aveva che l’imbarazzo della scelta. Impronte nitide sembravano messe a bella posta nei posti più accessibili ed evidenti.
Scivolò nel corridoio furtivamente, quando ebbe finito. Non voleva incontrare Celia Selfridge, perché non sapeva cosa avrebbe potuto dire alla proprietaria della Red Pompeian House.
Attese nella bottega di Titius Caius Antifero, seduto sul bancone di legno, tra vasi e lucerne. Al piano di sopra, il titolare, che aveva il primo laboratorio di polizia scientifica di Pompei, stava mandando avanti riscontri dattiloscopici. Tariq non dovette attendere molto, perché il suo amico era competente e veloce nell’esecuzione. «Ispettore, ho finito». Sventolò un mazzettino di foglietti, poi spiegò. «Ho esaminato le impronte. Quelli che hanno rovistato nella stanza di Petruchio sono...» Antipher cominciò a dire i nomi delle persone interessate. Ogni volta faceva cadere un foglietto sul bancone. «Waldo Dodge, Gordon Abercrombie, Mary Bollinger, Joseph Bollinger, Pat, Cedric. Manca...».
«Edna Duckworth» fece Tariq, quasi esultante.