Lo zar

da "Asporti non autorizzati"


Alla caduta dello Zar, i suoi fedeli servitori presero la via dell'esilio. Il fior fiore della nobiltà russa si stabilì a Parigi, Sanremo, Montecarlo, Capri, Londra.

Dove, invece, poteva finire Ivan Ivanovic Griscin, il più sfortunato dei titolati, fatto principe dallo zar un giorno prima della sua deposizione? A Napoli, naturalmente, per un doloroso infortunio. E dire che i Griscin aspettavano un riconoscimento per la loro devozione alla causa imperiale da ben dieci generazioni.

Ma andiamo con ordine. Sul treno che lo portava in esilio a Parigi, Griscin fece la conoscenza di un napoletano che si disse scrittore di canzoni immortali, che avevano fatto il giro del mondo, ed amico intimo di Enrico Caruso.

Il canzonettista fece una rivelazione sconvolgente a Ivan Ivanovic. Lo Zar era riuscito a fuggire e si era segretamente stabilito a Napoli. Qui tesseva le fila della resistenza al nuovo regime e preparava l'immancabile e glorioso ritorno in patria.

Griscin giurò, su una sacra, antica e preziosa icona, che il musicista si fece prestare per le sue orazioni quotidiane e mai restituì, di tenere il riserbo più assoluto sull'informazione.

Essendo un uomo molto scalognato, come tutti i suoi antenati, Ivan Ivanovic non aveva nulla di suo. Gli era solo capitato di sposare una donna, Ludmilla Fiodorovna, brutta come la peste, ma agiata, se non ricca.

Nel fuggire dalla Russia, Ludmilla era riuscita a portarsi appresso tutti i suoi gioielli. Contava di venderli e di vivere di rendita.

Arrivati finalmente a Napoli, il canzonettista, al quale Ivan aveva rivelato la storia dei gioielli, li accompagnò immediatamente nella migliore pasticceria della città. Fece comprare a Griscin trentasei paste assortite, dopo di che fece altre sorprendenti rivelazioni.

Lo Zar aveva stabilito la sua segreta residenza in Palazzo San Potito. Qui viveva circondato da una piccola corte formata da false modiste e falsi sarti, all'insegna di una presunta sartoria Romano.

"Romano, Romanov... geniale" commentò Ivan Ivanovic. La moglie sbuffava e storceva la bocca, già obliqua per conto suo.

L'amico intimo di Caruso rivelò ancora che lo Zar, per le sofferenze patite, era diventato ghiottissimo di dolci, che divorava a trentasei per volta.

Il sovrano, anche se preda di qualche piccolo disagio psichico, pretendeva di mettere alla prova la fedeltà dei suoi sudditi. Perciò lui, il musicista, che aveva avuto l'onore di suonare davanti a Sua Maestà, a Mosca ed a San Pietroburgo, avrebbe portato da solo al Capo dei Romanov i gioielli di Ludmilla. Dopo di che i Griscin, con le trentasei paste, sarebbero stati ammessi alla presenza dell'augusta persona. Questi avrebbe mangiato i dolci, lodato i suoi fedeli sudditi, restituito i gioielli e promossi i Griscin granduchi.

Nonostante i pianti, i lamenti, le grida di Ludmilla, i gioielli, custoditi nell'ampia sottogonna, furono consegnati nelle veloci mani dell'intermediario. Quest'ultimo si inoltrò come un fulmine su per quello che aveva chiamato Palazzo San Potito.

Griscin, che non stava nella pelle per l'emozione, aspettò ore ed ore con la grande guantiera di dolci in mano.

L'amico di Caruso, però, non si fece vivo, e, alla fine, accogliendo un pressante ed imperioso invito della moglie, Griscin si decise a salire per le scale. Non trovò però, nessun imperiale appartamento, più o meno camuffato da sartoria, perché, al termine di quelle che erano le Scale e non Palazzo San Potito, si usciva in una strada, ovviamente a livello più alto di quella dalla quale si entrava.

Così, i gioielli di Ludmilla presero, come le canzoni dell'amico di Enrico Caruso, le vie del mondo.