Acquedotto romano

da "Asporti non autorizzati"


L’antico acquedotto romano era un’opera di grandissima ingegneria. Portava l’acqua da molto lontano. Distribuiva il liquido, attraverso una fitta serie di cunicoli scavati nella roccia, ai palazzi dell’antica città. La gente attingeva l’acqua da pozzi installati in ogni costruzione.

Il nano Atlante si nascondeva in quei sotterranei. Aveva vergogna di se stesso. La natura lo aveva esposto agli scherzi degli uomini. Chi lo aveva visto, lo aveva disegnato sui muri di Napoli e delle città vicine. A Pompei è possibile vedere uno dei suoi ritratti. Un essere minuscolo, enorme, però, nella sua mascolinità. Quest’ultima arrivava alla sua testa. In qualche modo, Atlante parlava con se stesso.

Una buona vedova, mentre attingeva acqua da un pozzo, lo vide. La donna, saggia, tollerante e rispettosa degli altrui problemi, capì subito che c’era del buono in Atlante. Lo fece salire insieme al secchio d’acqua. Se lo portò a casa.

La voce si sparse. Atlante divenne il beniamino delle buone vedove. Continuava a nascondersi nell'acquedotto, ma, ogni tanto, risaliva in superficie. 

Le donne lo invitavano nelle loro case. Calavano nel loro pozzo un secchio. Sul recipiente Atlante trovava un suo ritratto a carboncino. Con un tocco di malizia, le signore disegnavano l’aggeggio, con cui Atlante parlava.

La storia delle vedove continuò fino al medioevo. Da Atlante, il grosso problema passò ai discendenti, tramandandosi di padre in figlio.