L'ultimo Natale

da "Asporti non autorizzati"


Ogni anno, Corrado iniziava i preparativi verso il 20 novembre. Sui cinquant'anni, era rimasto solo nella grandissima casa al secondo piano. Non gli pesava vivere come un cane. Ma, a Natale, neanche a lui pareva giusto non avere compagnia. Si era ridotto a stare così quando aveva capito, dopo molte vicende dolorose, che l’amore non era per lui. 

Aveva vissuto con la madre. Fin quando la donna aveva lasciato questo mondo. 

La casa era un museo. L’uomo era l’unico depositario delle tradizioni di famiglia. Conservava fotografie, ricordi, lettere di tanta gente che non c’era più.

La tradizione di preparare il pranzo per i morti era antichissima. Corrado aveva spostato la ricorrenza al 24 dicembre. C’era da pulire la casa, preparare il presepe, il pranzo per decine di invitati. Già dopo dieci giorni di lavoro, Corrado era avvilito. Sapeva che da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Si raccoglieva in preghiera davanti alla fotografia della madre, sul comodino nella stanza da letto.

La buona signora come avrebbe potuto dire di no al figlio? Il tempo di chiedere i permessi e, dopo un giorno o due, eccola bussare alla porta.

Dopo i baci e gli abbracci, la madre, benché fosse morta quasi a novant'anni, si rimboccava le mani. Energica come sempre, toglieva subito il figlio dagli impicci.

Corrado, dal canto suo, poteva dedicarsi ad allestire il presepe. Ogni anno cambiava qualcosa.

Il primo ad arrivare era quello che stava più lontano, zio Giulio. Il parente veniva addirittura dalla Nuova Guinea. Marinaio abilissimo, aveva navigato per tutti i mari, fino all’incidente fatale. Stare tra gente di tutti i costumi lo aveva fatto diventare tollerante. Ora non riposava in un cimitero. Si era salvata solo la sua testa rinsecchita, appesa in una capanna. Il povero Giulio, tanti anni prima, proprio la vigilia di Natale, era stato catturato, cucinato e mangiato da una tribù locale. Giulio non si era scomposto più di tanto. “È giusto, dovete fare Natale pure voi.”

Giulio era un ospite graditissimo. Chi l’anziana signora non poteva soffrire era il “cardinale”.  Una delle pecore nere della famiglia. Si trattava di un truffatore che girava ai suoi tempi in abiti talari. Passava di gioielleria in gioielleria. A tutti diceva che il Papa aveva perso l’anello mentre si lavava le mani. Il pontefice aveva bisogno di uno nuovo. Ritirava l’anello e faceva mandare il conto al Vaticano. 

Arrivava finalmente il giorno della vigilia. I parenti venivano da molti cimiteri, cittadini, di altre città o stranieri. Fino ai trisavoli, c’erano tutti. Dovevano stare anche in quindici in una stanza.

Servire tanta gente a tavola sarebbe stato un problema. Non per quella smisurata famiglia. Tra loro c’erano stati tanti bravi camerieri. A loro non pareva vero di rifare per una notte il vecchio mestiere. 

Prima di iniziare il pranzo, c’era da mettere pace tra due membri della famiglia, sempre sul punto di venire alle mani. Zia Cettina e zio Alessandro, dietro insistenza dei vecchi, erano costretti a baciarsi ed abbracciarsi. Il cugino Rodolfo, il buontempone del gruppo, immancabilmente diceva. “E dai, Alessandro, baciala sulla bua.”

La bua erano cinque coltellate al cuore che Alessandro aveva inferto alla moglie Cettina, dopo averla sorpresa a letto con l’amante.

Si mangiava, si parlava, si rideva, qualcuno si ubriacava. Il dopo pranzo era ancora più allegro. I presenti si esibivano in quello che in vita avevano saputo fare meglio. Chi cantava, chi suonava, chi raccontava storie.

Zio Ralph veniva dall’America. Stava in un cimitero di Hollywood. Era stato giardiniere ed amante di Rodolfo Valentino. Parlava del mondo del cinema, dei grandi attori del passato. Tutti lo ascoltavano con grande interesse. Alla fine, si esibiva, coprendosi con una tovaglia, ballando come lo sceicco bianco.

Alberto, che aveva sognato inutilmente tutta la vita di vincere al lotto, raccontava di quando era andato vicinissimo a un ambo o un terno.

“Ora mi piglierei a schiaffi. Sapete, conosco tutte le estrazioni che verranno, fino al 2050.”

A mezzanotte precisa, Ciro, il più piccolo del gruppo, morto a soli tre anni, metteva la statuina di Gesù bambino sul presepe.

La cugina Elvira si era sempre dilettata a fare le carte. Là poteva predire il futuro a una sola persona. Cioè a Corrado, che era l’unico vivo. Quella, in verità, era la parte più noiosa della serata, perché le predizioni erano sempre le stesse. Non c’era mai niente di nuovo nella vita di Corrado. Quella volta, però Elvira disse: “Non so se ridere o piangere.”

“Mi sposerò?”

“No, ci raggiungerai.”

Siccome erano tutti morti, gli fecero gli auguri.

La madre lo baciò sulla fronte: “Da morto spero che avrai una fortuna migliore.”

Si alzò il trisavolo. Il più importante della famiglia concludeva sempre la riunione con un brindisi.

“Vi invito a brindare a questa sera. È l’ultima volta che ci vediamo qui. L’anno prossimo il buon Corrado lascerà anche lui la vita. È uno degli ultimi che ha coltivato con convinzione le tradizioni antiche. Non ha eredi. Tutto quello che c’è in questa casa verrà disperso ai quattro venti. La casa sarà venduta ad un estraneo. Le nostre fotografie verranno buttate nella spazzatura. Cosa possono dire la mia faccia, i miei baffi a manubrio a degli sconosciuti?”

Il trisavolo alzò il calice e concluse: “Dio abbia pietà delle nostre anime abbandonate dai vivi.”