Il messia meccanico

da "Il messia meccanico e altri racconti"


"Avvenne che, alle dipendenze di Gaspare, re di Tharsis e dell'isola Egriseula, vi fosse uno stalliere di nome Vaus, uomo gentile ed onesto. Egli accudiva con impegno i cavalli ed i cammelli della carovana. Vaus era circondato da grande rispetto, da parte dei compagni di viaggio. Ciò non si accordava con la sua apparente, umile, condizione. La notte, abbandonate le sue occupazioni, si fermava ad osservare le stelle, a scrutare un oggetto celeste da poco misteriosamente apparso, a fare complicati calcoli, a scrivere. Nessuno osava disturbarlo.

Lo stalliere fu al seguito di Gaspare quando questi, insieme a Baldassarre, re di Godolia, ed a Melchiorre, signore di Nubia e di Arabia, si recò, guidato da una cometa, a rendere omaggio ad un eccezionale bambino da poco nato.

Non solo personaggi illustri andarono all'umile capanna, dove il bimbo era venuto alla luce. I re furono, infatti, preceduti da umili pastori e dalle loro donne, che portarono modesti doni per il neonato.

Lo ‘stalliere’ osservò le povere offerte e, poi, quelle magnifiche dei tre saggi e buoni re.
Vaus pensò che quegli omaggi fossero o utili, o preziosamente inutili. Non ce ne era uno solo che fosse piacevolmente inutile, ed adatto, quindi, per un bambino.

Lo ‘stalliere’ andò al campo. Prese un oggetto di legno dal sacco della sua roba. Aveva intagliato quella cosa nelle lunghe notti di veglia, accanto al fuoco dei bivacchi, durante le soste della carovana, dopo le osservazioni e gli studi. Quell'oggetto era un cavallo dipinto di bianco, che rappresentava l'animale preferito di Gaspare.

Furtivamente, perché lo ‘stalliere’ sapeva essere discreto, si avvicinò alla capanna. Scelse un momento di grande confusione, causato dall'andirivieni di quelli che continuavano a rendere visita al bimbo. Non visto da nessuno, Vaus depose, ai piedi del piccolo giaciglio, il suo dono. Si allontanò subito dopo.

Fu la madre ad accorgersi dell'inconsueto regalo. Lo raccolse e lo mostrò ai presenti. Il bimbo sembrò anch'egli interessato al giocattolo. Cercò di sollevarsi, per osservare meglio il cavallino.

Il padre del piccolo guardò con attenzione l'oggetto scolpito e, poiché anch'esso era dell'arte, apprezzò la buona lavorazione.

Vaus guardò la scena da un posto nascosto. 

‘Salute a te, nato alla luce d’Oriente e d’Occidente. Oh, tu che cambierai il mondo, accetta il  mio dono. Gioca con esso. Per me è confortante sapere che tu hai giocato. Sai, dentro di me sono rimasto bambino. Il mio rimpianto è di non esserlo più. Vorrei che tutto rimanesse bambino, comprese le idee e le speranze. Perché esse, purtroppo, cresceranno e porteranno dolore. Si oscureranno le luci d’oriente e d’occidente. Il mio dono è cosa molto, molto piccola. Avevo, infatti, in mente qualcosa di più adatto. Un cavallino come questo, ma che si potesse muovere, che fosse in grado di trottare, di galoppare. Apparentemente libero, in realtà legato al tuo volere. Avrei voluto costruire un oggetto animato, con in sé un meccanismo e la forza per muoversi.’

Delle nuvole oscurarono per un attimo lo splendore della cometa. A volte le nuvole assumono forme stranissime. Quelle sembravano ombre lunghe di qualcuno che si affacciava da un'enorme finestra, per osservare ciò che avveniva di sotto.

Lo stalliere si rattristò, improvvisamente, e si allontanò. Si fece più assorto, come se ripassasse certi suoi calcoli. ‘Un giorno, uno che verrà dopo di me, dopo settantadue generazioni, sarà in grado di costruire il giocattolo che avevo in mente. Celebrerà degnamente la luce.’

Dopo qualche giorno i tre re, il loro seguito, e, tra loro, Vaus, ripresero la via del ritorno. Il costruttore del cavallino bianco, volle continuare ad essere un umile stalliere. Gaspare, Melchiorre e Baldassarre lo sollecitarono, inutilmente, ad essere trattato come si addiceva a quello che Vaus era realmente. Perché Gaspare, Melchiorre e Baldassarre erano solo re. Il vero ed il solo Mago, depositario segreto della scienza antica, era solo uno. Era Vaus.”

Era il mattino di un giorno di fine febbraio dell'anno 17... Un giovanetto di quindici o sedici anni di bell'aspetto cavalcava al centro di una grande pianura. Alle sue spalle si innalzava e diventava sempre più piccolo un grandissimo palazzo reale. Il giovane, che si chiamava Leucadio, era un buon cavaliere, anche se aveva sul suo animale una strana attrezzatura. Una sella come la sua non era mai stata vista prima. Nella parte posteriore finiva con una specie di strano cuscino, adatto per accogliere comodamente un gatto. E lì, infatti, sonnecchiava un micio di nome Starnuto, che non sembrava a disagio per gli scossoni causati dal viaggio a cavallo.

Il giovane arrivò ai piedi di una collina e prese la strada che saliva in su, verso il paese di San Leucio. Dopo essere passato attraverso un arco di ingresso, Leucadio fu circondato da una decina di ragazzi urlanti. Gli adolescenti ridevano e si facevano beffe di lui e del suo ospite. Il gatto starnutì, come faceva sempre nelle situazioni imbarazzanti. Allungò le zampe anteriori, mostrò gli artigli, aprì la bocca e continuò a fingere di dormire.

Poco discosto dal gruppo, stava una ragazza, giovane e di bello e solido aspetto, Cenza. Rossa in viso, cercava di ricondurre alla calma i bambini. Pronunciava parole di scusa per Leucadio. Il giovane scese dal cavallo, per ringraziare Cenza del suo intervento. Riuscì a malapena a pronunciare qualche parola. Gli occhi rivelavano intelligenza, sapienza ed innocenza, ma il suo modo di fare si rivelava goffo e impacciato.

Starnuto continuò a fingere di dormire, ma per poco. Il cavallo non sopportava di portarlo da solo. Scalciando e saltando, lo costrinse a scendere. 

Leucadio era nient'altro che il settantaduesimo discepolo di Vaus, condotto nel borgo di San Leucio dalle ricerche di un suo predecessore, chiamato "il geografo". 

Cenza e Leucadio si guardarono a lungo in silenzio. Il ragazzo era il più imbarazzato. Cenza sentì subito una certa sensazione, l'inizio di quelle strane emozioni che, nella forma più acuta, si chiamano amore.

Arrivò trafelato, il capo del villaggio, Francesco. Padre di Cenza, uomo gentile ed onesto, costruiva e riparava telai. Era anche bravissimo a disegnare, a costruire orologi, a intagliare legno ed a fare tante altre cose. Strinse calorosamente la mano del giovane. Gli disse poche parole di benvenuto e gli offrì ospitalità nella sua casa. Un osservatore attento avrebbe sospettato che Francesco aspettasse il giovane e sapesse di una sua missione.

Nel paese di San Leucio, da poco fatto costruire dal Re di Napoli c'era un'importante fabbrica per la tessitura della seta. 

Quando fu solo, nella stanza che gli era stata assegnata, Leucadio aprì un antichissimo libro e lo sfogliò, come per cercare suggerimenti per le sue prossime azioni. Si trattava del "Libro dei settantadue." Esso conteneva i nomi d’arte dei discepoli di Vaus e i resoconti delle loro esperienze in ogni campo del sapere umano. Dall'uno all'altro le conoscenze si erano accresciute e migliorate. In Leucadio, la sapienza era discesa come per incanto, già in tenerissima età. A poco più di 15 anni già si era potuto mettere all'opera.

I discepoli dello stalliere erano vissuti in piena libertà, senza preoccupazioni economiche, sapendo che la loro vita era di preparazione per il settantaduesimo. Quello che sarebbe stato in grado di costruire il cavallino animato. 

Ognuno aveva svolto, per tenere lontani i curiosi, una professione o un mestiere ufficiale. Sul "Libro dei settantadue" sarebbe stato inutile cercare il vero nome di ciascuno. Essi erano semplicemente indicati come il barbiere, l'oste, il notaio, il mercante, l'astrologo, l'artificiere, il geografo... Essi avevano scritto il senso delle loro esperienze sul libro, in modo che i successori tenessero nel debito conto quegli studi.

L'ultimo, Leucadio, era indicato, come l'orologiaio o come il Mago.

Era passato un giorno, poi una settimana, infine un mese. Leucadio era ormai uno degli abitanti di San Leucio, anche se molto speciale. Solo Leucadio conosceva per intero i suoi progetti. Gli altri avrebbero saputo via via attraverso le sue creazioni.

Lo straniero era tanto sapiente quanto timido e impacciato, specialmente negli affari di cuore.
Era stato lui, ovviamente, ma in modo molto particolare, a prendere l'iniziativa di dichiararsi a Cenza.

Non osandole parlare apertamente dei suoi sentimenti, Leucadio aveva pensato ai mezzi più strampalati per esternarli.

Alla fine, scartata un'idea dopo l'altra, aveva progettato una colomba meccanica. L’uccello metallico sarebbe volato fino a Cenza, recando un messaggio d’amore nel becco. 

Fino a quel momento nessuno scienziato aveva risolto il problema del volo delle cose più pesanti dell'aria. Nessuno dei predecessori di Leucadio si era, inoltre, occupato di quegli studi. Non ce ne era, infatti, traccia nel "Libro dei settantadue".

Leucadio era in una piccola radura, circondata da vecchie querce. Sui tronchi aveva disposto i disegni della sua colomba meccanica. 

Si grattò la testa, perplesso. Il progetto non lo convinceva.

In quel momento arrivò Cenza, di ritorno dal torrente, dove aveva lavato i panni. La giovane diede un'occhiata ai disegni e, chissà come, capì.

La ragazza fu, come sempre, sincera. Senza pensare a quello che diceva, le uscì:

"Esagerato! Quanto studio per mandarmi a dire che mi vuoi bene!"

Leucadio diventò rosso. Voleva parlare, ma non riuscì a dire una sola parola.

Cenza, avuta la muta conferma della sua affermazione, se ne scappò via ridendo.

Il padre aveva curato con passione l'educazione della bella e simpatica fanciulla. Cenza aveva imparato ad esprimersi correttamente, a leggere e a scrivere. Eccelleva nel disegno. Era portata per ogni tipo di espressione artistica.

Le occupazioni di Leucadio consistevano nello studio del "Libro dei settantadue", nello sviluppo dei suoi progetti e nel lavoro di laboratorio, allestito in una casupola abbandonata. Qui lo raggiungeva spesso Francesco, che mostrava anch'egli una sapienza nascosta in molte arti e conoscenze.

Nei momenti liberi Leucadio correva, spinto da Cenza, con la mano nella mano della ragazza, nelle campagne. Era seguito dai fratellini della giovane e da altri bambini.

In un giorno d'estate, all'ombra di un grande albero era riunita la compagnia formata da Leucadio, Cenza e dai bambini.

C'era un grande oggetto misterioso, nascosto da un panno. Le proteste dei ragazzi fecero sì che la stoffa venisse subito tolta.

A prima vista, si trattava di un grande mappamondo, Ma, all'interno della struttura di legno che lo reggeva, c'era una voluminosa sfera di cristallo. In essa, l'esatta riproduzione di San Leucio. 

Si vedeva la seteria, le due file di case dei lavoranti, l'ingresso al borgo, dopo un arco.

Leucadio capovolse la sfera, che poteva ruotare, e la riportò subito dopo nella posizione originaria. Grossi fiocchi di neve cominciarono a cadere all'interno. Dalla sfera si diffondeva una musica meccanica. La scena, dentro il contenitore rotondo, non era inanimata. Le piccole finestre delle case si aprivano. Le figurine, che riproducevano gli abitanti, salutavano e chiudevano le imposte. Sulla strada, un gatto avanzava in groppa ad un cavallo. Il cavallo si impennava e l'indesiderato ospite doveva scendere giù.

Tutti applaudirono il primo visibile prodotto dell'ingegno di Leucadio.

Il giovane, nonostante fosse assorbito dagli studi e dalle progettazioni, si preoccupò dell'educazione dei ragazzi. 

Gli furono particolarmente utili i consigli del “maestro di scuola”, quarantacinquesimo discendente dello stalliere, che aveva inventato metodi di insegnamento rivoluzionari per i suoi tempi.

Leucadio aveva studiato a fondo gli appunti del suo predecessore ed aveva, quindi, realizzato il telaio magico. Tra le proteste della madre della ragazza, il giovane scienziato aveva modificato il telaio che era in casa di Cenza. Vi aveva installato, all'interno, piccole scatole piene di ingranaggi. Nelle scatole venivano inserite lunghe e sottili strisce di legno, che avevano una serie fittissima ed intelligente di minuscoli fori. Le piccole scatole e le strisce bucate erano il cuore del prodigio. I buchi sui pezzi di legno erano veri e propri ordini, letti dagli ingranaggi ed inviati al telaio. Così, i fili multicolori, che erano sul telaio, formavano disegni, che variavano da momento a momento, dando l'illusione di figure in movimento.

Leucadio allestì il telaio magico per spettacoli educativi. Così mostrò in lenta successione le lettere dell'alfabeto. Per far proseguire il gioco, i bambini dovevano premere tasti corrispondenti alle lettere che apparivano. Non trascurò l'aritmetica. Sul telaio apparivano quattro capre, cinque maiali, tre buoi. Gli alunni dovevano indicare i numeri corrispondenti ai gruppi di animali.

Le intenzioni erano buone, ma i bambini cominciarono ad annoiarsi. Cenza suggerì di allestire qualche giochino divertente. Leucadio mise a punto il gioco del passero e del falcone. Sul telaio magico, i fili, che, come al solito, si muovevano senza sosta, senza intrecciarsi definitivamente, mostravano il volo del falcone, che andava su, in alto. Giù, su un prato, un passero saltellava. Il bambino che giocava, manovrando delle leve, doveva guidare il passero e portarlo in salvo dagli appetiti del falcone.

Leucadio era seduto sulla riva del ruscello ed osservava Cenza che lavava i panni.

La giovane doveva lavare una catasta indumenti sporchi. Sbatteva i panni contro i sassi del ruscello. Ogni tanto, Cenza si girava verso il suo coetaneo e protestava perché non riceveva aiuto.

Leucadio promise che avrebbe fatto qualcosa.

Qualche giorno dopo ci fu una riunione al ruscello con le donne della comunità. Leucadio mostrò una scatola su ruote. Ad un lato era attaccato qualcosa che somigliava ad un braccio umano, che finiva in una mano meccanica, completa di calli. Leucadio mise in moto il dispositivo. La mano cominciò a battere i panni sporchi contro i sassi del ruscello e, poi, a far ruotare velocemente gli indumenti lavati per estrarne l'acqua.

Le donne rimasero a bocca aperta.

Leucadio si arrovellava il cervello per risolvere certi problemi tecnici, la cui soluzione era fondamentale per realizzare i suoi progetti. Si decise a parlare con Francesco. Leucadio mostrò a Francesco complicatissimi disegni, che riproducevano meccanismi fatti di migliaia e migliaia di rotelline dentate.

"Questi sono i progetti per i miei automi. Per dar loro movimento, sono costretto a ricorrere a dispositivi a molla. Questo limita la loro autonomia. So che esiste un fluido, una forza che potrebbe risolvere il problema. Ebbene, se potessimo, in qualche modo applicare questo fluido ai miei automi, essi sarebbero autosufficienti per anni ed anni.”

Francesco non poteva risolvere il problema, ma sollecitò in maniera appropriata la mente del giovane per trovare una soluzione.

Cenza era sommersa da pezze di seta e di altre stoffe. La ragazza era un'abilissima disegnatrice. Leucadio le aveva chiesto di preparare gli schizzi di modelli per certi abiti in miniatura. Cenza passò poi a realizzare i vestiti. Per alleviarle il lavoro, il giovane scienziato le costruì due automi con fattezze da donna che tagliavano e cucivano sotto la direzione della giovane.

Cenza era “perseguitata” dall'amore di Leucadio, anche nelle sue innocenti passeggiate nel bosco.

Era costantemente seguita da due strani individui che somigliavano in qualche modo a Leucadio.

I due, che, in realtà, erano due portentosi automi, sfoderavano violini ed archetti ed improvvisavano musica struggente e romantica.

Leucadio aveva saputo anche trasformare, con l’aiuto di Francesco, un gruppo di tessitori e di contadini in abili artefici. Con loro e con gli automi costruttori, aveva lavorato in una grotta poco lontana dalla seteria. La grotta aveva davanti a sé un ampio spazio erboso.

Leucadio aveva voluto riservare a se stesso la costruzione di certi particolari.

Verso il venti dicembre il grosso del lavoro nella grotta era terminato. Rimanevano le opere più delicate, consistenti principalmente nel portare il "fluido", messo finalmente a punto, ai vari meccanismi creati da Leucadio, in modo che i congegni non avessero limitazioni nell'autonomia e nella durata dei loro movimenti.

La sera del ventiquattro dicembre, gli abitanti di San Leucio, al completo, si riunirono intorno alla grotta. Venne sollevato un sipario, ed apparve un presepe di grandissime dimensioni, dove agivano figure, che raggiungevano quasi la metà di quelle reali. Gli automi vestivano abiti della stessa foggia di quelli indossati dagli spettatori.

Alcuni particolari dell'allestimento sfruttavano la tecnica del telaio magico. Così il cielo, sul quale scintillavano decine e decine di stelle. Così un ruscello che, dopo un salto, terminava in un laghetto.

Leucadio era al fianco di Cenza. Francesco poco più lontano. Il giovane batté le mani. La rappresentazione ebbe inizio.

Apparvero in primo piano un gruppo di angeli, che portavano trombe ed altri strumenti musicali. Quello che capeggiava il gruppo aveva le fattezze di Cenza. La ragazza sussultò e baciò sulla guancia l'innamorato.

L'angelo Cenza e gli altri si spostarono verso un gruppo di figure presepiali. L'automa Cenza cantava. Non era possibile, però, dare un senso compiuto a quello che diceva. Pronunciava solo vocali e qualche sillaba. Più di tanto non era stato possibile a Leucadio. Dai gesti, però, si capiva quello che l'angelo intendeva commentare.

La banda andò vicino ad un automa effigiato come un pastore addormentato, tra le sue pecore. Il pastore non aveva un sonno tranquillo. Era disturbato da una mosca che volava intorno al suo orecchio. Con una mano, il quasi dormiente faceva per scacciare l'insetto. 

Colpiva, invece, in pieno volto, un angelo. L’essere alato si era chinato per sussurrare l'annuncio di un avvenimento straordinario che si stava per compiere.

La banda degli angeli lasciò il pastore per andare alla casa del Mago. Questo automa riproduceva in maniera sorprendente l'aspetto di Leucadio.

Il Mago era al suo tavolo di lavoro. Consultava antichi volumi di astrologia e l'originale del libro dei settantadue. Da complicati calcoli sui movimenti dei pianeti, aveva concluso che, di lì a poco, sarebbe accaduto un evento portentoso. L'automa posò la penna d'oca e cominciò a fissare il cielo. Attendeva. Un angioletto penetrò nella casa - laboratorio, e cominciò a curiosare tra pergamene, recipienti di vetro ed altre cose misteriose. La creaturina alzò la fiamma sotto un alambicco, nel quale c'era una sostanza di colore rosso. Ci fu una grande esplosione. Dalla casa del Mago uscì una nuvola di fumo, che nascondeva l'automa, preda di una tosse stizzosa, e i suoi strumenti.

A quel punto, la banda si rimise in movimento. L'automa Cenza, avvicinandosi al mercato, fece un cenno con la mano e gorgheggiò in modo particolare. Non intendeva attirare l'attenzione su quello che vendeva verdure, o sull'altro che commerciava galline, sul ciabattino che riparava sandali. L'angelo canterino non voleva neanche parlare di quello che intrecciava canestri, né di quello che affilava coltelli, ma del pescivendolo. Questi stava prendendo un pesce guizzante da una bassa cesta, per pesarlo su una bilancia. Un'anziana donna voleva acquistarlo. 

Apparve un angioletto. Con la punta di un dito, l'essere alato sollevò la bilancia truccata, fino al punto necessario per portare il pesce al suo vero peso.

Intanto, una strana coppia di figuri circolava per il mercato. Uno spingeva con il grosso pancione dei malcapitati, per distrarli. Il compare, svelto, metteva le mani nelle borse delle vittime per arraffare monete. Un angelo molto severo seguiva i ladri per arrestarli alla fine delle loro ruberie.

Cenza finse di barcollare, come se fosse ubriaca, mentre lasciava il mercato e raggiungeva la taverna. I tavoli erano affollati di gente che banchettava allegramente. Solo il tavolo vicino alle botti era occupato da un unico automa, raffigurato come un incallito bevitore. L'ubriaco baciava la botte ricolma e, poi, brindava forse alla salute della stessa botte, bevendo d'un fiato un bicchiere colmo di vino.

Poi l'ubriaco si addormentò di colpo.

Proprio in quel momento, il telaio magico che dava forma al cielo assunse una strana colorazione. Tutto si fermò. Cenza rimase con la bocca spalancata, e gli angeli trombettieri con le guance gonfie. Una mosca si bloccò a mezz'aria. La mano del pastore si immobilizzò anch'essa, proprio nell'attimo in cui stava per colpire l’insetto. I venditori rimasero scolpiti nell'attimo di dire meraviglie delle loro mercanzie. Gli artigiani, instancabili lavoratori, ebbero, finalmente, un momento di tregua. Il pesce non guizzò più. I ladri, per un momento, furono inchiodati da un'improvvisa ed inaspettata onestà. L'ubriaco, risvegliatosi improvvisamente, si torturava perché guardava inutilmente, con avidità, il bicchiere di vino, senza poterlo mandar giù. La mano, il braccio e tutto il suo corpo erano paralizzati.

Finalmente, un vagito altissimo ruppe lo strano incantesimo. A tutti gli automi fu nuovamente concesso di potersi muovere.

Cenza e gli angeli corsero e raggiunsero una povera capanna, proprio al centro del presepe. 

Lì, una donna ed un uomo erano chini su un bambino appena nato. Dietro, accovacciati, erano un bue ed un asino.

Cenza, arrivata vicino alla capanna, inspirò profondamente. Poi la bocca si aprì per far uscire, cento volte, un grido di gioia. Gli angeli immettevano aria ed aria nelle loro lunghe trombe.

Le figure che rappresentavano i pastori cominciarono a scendere dalle colline intorno. Portavano doni modesti, ma ugualmente graditi a quelli che erano nella capanna.

Ad un tratto, una cometa apparve sul telaio magico che rappresentava il cielo. Si fece sempre più distinta. Precedeva un corteo formato da tre nobili signori e dal loro seguito di uomini, cavalli, cammelli e carri.

La cometa, fattasi grandissima e luminosissima, andò a fermarsi proprio sopra la capanna. Gaspare, re di Tharsis e dell'isola Egriseula, Baldassarre, re di Godolia, e Melchiorre, signore di Nubia e di Arabia, erano giunti al termine del loro lungo viaggio. Anch'essi offrirono i loro doni, questa volta preziosissimi.

Improvvisamente, le luci che rischiaravano la scena calarono di intensità. Sulla volta che rappresentava il cielo, apparvero nuvole strane. Sembravano ombre di personaggi intenti a guardare la Terra da grandi balconi celesti. Tutto fu quasi in ombra, tranne l'automa che raffigurava lo stalliere Vaus. L'uomo, guardò il cielo e le nuvole e si avvicinò alla capanna. Prese un cavallino bianco, che aveva un corno sulla fronte, da sotto al mantello. Lo collocò davanti al bambino. Rendeva così finalmente l'omaggio desiderato a quel bambino, a tutta l'infanzia e alle idee bambine. Lo stalliere si allontanò. Ritornò la piena luce.

Mentre il bambino, il Messia Meccanico, levava le mani verso il giocattolo animato, il cavallino, dopo millesettecento anni, finalmente si animò. La riproduzione dell'animale galoppò e trottò in cerchio. Poi, dal corno partì una luce accecante, pari a quella del Sole. Sotto i suoi raggi, gli automi non sembravano più tali. Le marionette meccaniche acquistarono consistenza ed aspetto di persone vere.

Nella casa del Mago, in un grande alambicco ribolliva una sostanza nera e densa. A stadi successivi, essa si fece sempre meno vischiosa. Cambiò colore, prima bianca, poi gialla ed infine rossa. Quando avvenne l'ultima trasformazione, dal Mago, sorridente, si levò un contenuto grido di gioia. Una reazione alchemica era avvenuta con successo.

Gli abitanti di San Leucio erano rimasti estasiati dalla rappresentazione. Francesco e Leucadio erano stati chiari con i paesani. La rappresentazione ci sarebbe stata solo quella notte, per soddisfare, fu detto, un lontano desiderio. Infatti, all'improvviso, tutto il presepe sembrò crollare. Era come risucchiato dal pavimento della grotta che si inabissava. Ci fu un gran fragore, rumore di massi che rotolavano. L'ingresso della grotta scomparve. Poi ricrebbe la vegetazione per nascondere per sempre quello che era avvenuto.

I sanleuciani ritornarono alle loro occupazioni. Francesco riprese il suo lavoro di disegnatore. L'esperienza del presepe sembrava avergli irrobustito la vena creativa. I disegni dei tessuti che produceva non erano mai stati così belli.

Cenza e Leucadio decisero di rimanere per sempre insieme. Lasciarono il villaggio con la benedizione di Francesco. Leucadio si trasferì a Napoli. Nella capitale non volle più costruire automi ma solo bellissime figure per il presepe. Il re di Napoli di Napoli gli chiese ragione della sua scelta. “Maestà” rispose “una promessa è stata adempiuta. Questo basta, non è bene che si vada oltre. La scienza dei maghi agisce per la perfezione degli uomini, non per la loro distruzione.

Cenza, intenta a tagliare e cucire sete preziose per fabbricare le vesti delle figure presepiali guardava Leucadio sorridendo. Starnuto sognava di cacciare topi veri, anche piccoli. Non si curava dell’unico automa che era in casa, un perfetto ratto meccanico che scorrazzava in ogni stanza.


Una fitta vegetazione crebbe sull'ammasso di detriti che aveva ostruito l'ingresso della grotta del presepe. Ogni traccia venne cancellata. Si perse il ricordo di quegli avvenimenti.

A partire dall'anno successivo alla rappresentazione, chiunque si sia trovato a passare, nel giorno della vigilia di Natale, verso mezzanotte in quei luoghi, ha avuto l'impressione di sentire musiche, canti e strani rumori.

In quel giorno e a quell'ora, infatti, le figure animate, ormai con le vesti lacere, impolverate, coperte di terriccio, continuano a muoversi, a suonare e a cantare.

A mezzanotte, nel silenzio irreale della grotta, il Messia Meccanico leva le braccia verso il giocattolo animato mentre il cavallino si anima e trotta per lui. Una luce accecante, come quella del Sole, si leva, ad un tratto, dalla fronte dell’unicorno. Tutto si trasforma. Gli automi, per un attimo, diventano persone vere.

Poi, ombre allungate, rappresentazioni di nuvole, si protendono sulla volta della grotta, mentre riflessi di un rosso intenso provengono dalla casa del Mago.