Miacis

da "Il messia meccanico"



Jucundus


A Roma, e quindi anche nell'antica Pompei, che fu distrutta dal vulcano Vesuvio, piaceva da morire uno schifosissimo intruglio a base di pesce. La salsa di pesce, per l'appunto.

A quel tempo, i gatti vivevano solo in Egitto. Gli egizi se li tenevano ben stretti, perché gli animali erano imbattibili nel combattere i topi, ladri di grano. Se uno, che non fosse stato egizio, voleva un gatto doveva rapirlo.

Miacis era stato rapito e portato a Pompei. Quello che lo aveva preso sperava di aver risolto tutti i suoi problemi con i topi. Ma non era stato precisamente così. Infatti, Miacis, arrabbiato nero per essere stato privato del caldo sole dell'Egitto, si era messo in sciopero e non aveva voluto saperne di dare la caccia ai topi. Così il suo padrone lo aveva lasciato libero.

Al gatto piaceva una sola cosa di Pompei: la salsa di pesce. Miacis passava appunto le sue giornate a caccia di quella che era diventata la sua pietanza preferita.

Miacis era indipendente e scontroso, ma si era fatto ugualmente degli amici.

La prima era una civetta, Atena. Miacis passava con lei, a discutere, le lunghe ore della notte. Atena, nonostante i buoni rapporti, si teneva ad una certa distanza da Miacis. Non si sa mai. Un gatto è sempre un gatto.

La civetta si distraeva ogni tanto, quando vedeva qualche bel topo. A Miacis la cosa non interessava, come già è stato detto. 

Di giorno, Miacis se ne stava a sonnecchiare vicino all'angolo di strada dove il barbiere Naso esercitava il suo mestiere.

Naso era un simpatico personaggio, chiamato a quel modo proprio perché aveva un bel nasone. Era buono di cuore, ma maledettamente pettegolo.

Quando Miacis si stancava di sentire le chiacchiere del barbiere e dei suoi clienti, se ne andava da altri amici.

Ad una certa ora, infatti, decideva di andare nella panetteria della Vedova a godersi il tepore del forno.

La Vedova aveva due figli, Tiburtius, un intelligente ragazzo di undici anni ed un bimbetto di circa un anno, Jucundus. Nella bottega c'era anche una scimmia ammaestrata, Matrona, che  aiutava a fare qualche lavoretto, come trasportare i sacchi di farina.

Miacis sapeva bene cosa l'aspettava se voleva godersi il calore del forno, eppure tornava sempre.

La buona Vedova e Tiburtius lo avrebbero accarezzato. La panettiera, poi, avrebbe detto a Jucundus di non disturbare il gatto. A quel punto Jucundus, che si muoveva ancora a quattro zampe, si sarebbe diretto inesorabilmente verso di lui, ridendo e lanciando gridolini di gioia.

Il gatto continuava a vedere la scena: il bimbo sarebbe arrivato vicino a lui e avrebbe cominciato a tirargli la coda, a dargli pizzicotti, e, alla fine, a completare l'opera con delle belle ditate negli occhi.

Miacis avrebbe, come al solito, concentrato tutta la sua forza nelle zampe per impedire alle unghie di uscire. Non avrebbe mai fatto del male a Jucundus, per nessuna ragione. Poi, quando non ce l'avrebbe fatta più a sopportare, se ne sarebbe andato in un posto inaccessibile, in alto, dove si poteva, comunque, godere un pochino del calore del forno.

Un giorno, una scena terribile si presentò agli occhi del gatto, non appena fu entrato nella panetteria. La buona Vedova era a terra, morta. Miacis lo capì subito. Ebbe un pensiero fulmineo. “Jucundus che fa? Dove è?” Si lanciò dentro la culla. Non c' era. Si avvertiva, però, ancora un lievissimo tepore. Quindi, da non molto Jucundus non era più nella culla. Il gatto percorse in lungo ed in largo la panetteria. Del bambino non c'era traccia.

Miacis tornò ad osservare il corpo della Vedova. Sulla faccia c'erano molti graffi. I vestiti erano strappati in più punti. Non c'erano, però, segni di ferite. Si avvicinò al forno. Il pane era bruciato.

Il gatto ebbe un'intuizione, Jucundus era stato rapito. Ma da chi? Perché? Sicuramente la madre, la Vedova, si era disperatamente battuta per salvare il suo piccolo, ma era stata sopraffatta. L'emozione e il dolore l'avevano uccisa.

Il gatto cercò qualche traccia dei rapitori. Annusò intensamente l'aria. Sì, c'era un certo odore di salsa di pesce. Miacis sapeva benissimo che non c'era una salsa di pesce uguale all'altra. In ogni casa o bottega se ne preparava una diversa. Quell'odore apparteneva ai rapitori che avevano mangiato da poco piatti conditi con la salsa.

Si precipitò in strada per controllare se il rapitore aveva lasciato, anche nella strada, delle tracce odorose. Avrebbe, in caso positivo, potuto seguire quella pista, ed arrivare diritto alla casa del malfattore. Ma, purtroppo, il vento aveva rimescolato l'aria, e quell'invisibile impronta si era cancellata.

Il gatto non si perse d'animo e cominciò a miagolare. Stava chiamando la civetta. Atena tardava a venire. A quell'ora sonnecchiava su qualche davanzale, per captare, tra sonno e veglia, i discorsi di qualche comare pettegola.

Finalmente, l'uccello si presentò. “Cosa mai è successo per chiamarmi a quest'ora del giorno?” disse Atena mezzo addormentata.

“Jucundus è stato rapito” spiegò il gatto. “Vola immediatamente sopra Pompei. Tu, che hai la vista buona, devi scoprire qualcuno che se ne va con aria sospetta, portando un bambino o un fagotto. Individua il rapitore e seguilo fino alla sua casa.”

Atena si alzò in volo e guardò tutte le strade e i vicoli. Quando le sembrava di notare qualcosa di sospetto, si abbassava. Non riuscì, però, a scoprire nulla. Ritornò, quindi, a terra, vicino alla panetteria.

“Niente” disse Atena a Miacis. Il gatto era triste, pensieroso, non aveva voglia di parlare. La civetta entrò nella bottega ed osservò tutto. Fingeva di non essere curiosa per non urtare il gatto. Ma, a un certo punto, Atena non potette trattenere più la sua curiosità, e cominciò a tempestare l'amico di domande. Miacis manifestò visibilmente il suo nervosismo. Atena capì che non era il momento di insistere. Si rassegnò e, poiché era stata contagiata dal nervosismo dell'altro, cominciò a muoversi tutta. Girava continuamente la testa, da un lato e dall'altro. I giri della testa erano talmente ampi che riusciva a guardare la sua parte posteriore. Le penne della faccia si spostavano, si gonfiavano, si arruffavano senza sosta. Sembrava che l'uccello fosse preda di decine e decine di tic. Di tanto in tanto, per scaricarsi, emetteva lunghi suoni strazianti: “Kvun, kvun.”

Si sentirono, ad un tratto le risate allegre di Tiburtius e di Naso e gli schiamazzi della scimmia Matrona. Tornavano da una gita.

Miacis si rivolse bruscamente alla scimmia. Le ordinò: “Traduci a Tiburtius tutto quello che sto per dire.” Entrarono nella bottega del panettiere. Naso e Tiburtius si precipitarono verso il corpo della Vedova. Il bambino scoppiò a piangere. Naso, con le lacrime agli occhi, teneva stretto il bambino, e cercava di confortarlo. Decise, quindi di passare nella sua piccolissima casa, per sottrarre alla vista del bambino la sua povera mamma morta.

Si misero in circolo. Il gatto era di fronte alla scimmia. Il gatto parlava alla scimmia. Matrona traduceva al piccolo Tiburtius muovendo le mani, facendo saltelli, cambiando l'espressione della faccia, emettendo brevi suoni. Tiburtius, a sua volta, ritraduceva a Naso quanto la scimmia aveva detto.

Il bambino si era un po' calmato ed aveva capito che la sua opera, in quel momento, era importantissima.

Il gatto fece un resoconto della situazione. Jucundus era stato rapito. La mamma era morta nel corso del rapimento. Tiburtius e Naso gridarono e si precipitarono nella panetteria. Prima, la vista della donna li aveva sconvolti. Si erano dimenticati del piccolo Jucundus.

Tornarono straziati.

Miacis era arrivato al termine del racconto. “Anche Atena mi ha aiutato nelle indagini, ma, purtroppo, non ha scoperto il rapitore.

Ho idee molto precise. Vi prometto che troveremo Jucundus.”

Miacis diventò il capo delle operazioni. Tutti gli altri dovevano obbedirgli.

Naso rinunciò a gran parte dei suoi già pochi vestiti. Essi vennero accuratamente lavati, in modo che perdessero l'odore del loro proprietario. Poi gli abiti vennero ridotti in sottilissime e piccolissime strisce. Tiburtius disegnò, con l'aiuto di Atena, che descriveva dall'alto, una mappa di Pompei. Ogni casa, bottega, taverna venne individuata e numerata.

A questo punto iniziarono le indagini vere e proprie.

La civetta si alzava in volo, tenendo nel becco un pezzetto di stoffa. Andava in ogni casa o altro locale dove si preparava salsa di pesce, e raccoglieva gli odori caratteristici di quel posto. In tal modo, usando una pezzuola dopo l'altra, fu fatto il censimento di tutti gli odori delle case, delle botteghe, delle fabbriche e delle taverne di Pompei.

Il gatto passò alcuni giorni in una scatola semichiusa ad esaminare i campioni di odore raccolti sulle strisce.

L'intera Pompei venne così ispezionata, ma, purtroppo, senza risultati positivi.

Gli amici di Jucundus erano in preda all'angoscia. Bisognava far presto ed essi erano ancora al punto di partenza. La situazione era peggiorata dal fatto che non conoscevano il motivo del rapimento di Jucundus.

Miacis decise che bisognava passare ad un nuovo tipo di indagini. Lui stesso sarebbe andato nei posti di Pompei più affollati. La civetta avrebbe ripreso a frequentare i davanzali di certe signore, e Naso avrebbe fatto quello che già faceva. Mentre era intento a tagliare peli di barba o capelli, faceva qualche domandina, apparentemente innocente, e ascoltava, ascoltava...

Ogni sera i tre si riunivano e facevano il punto della situazione. Dopo soli tre giorni, risultò che ognuno dei tre investigatori era entrato ciascuno in possesso di una parte della verità sul caso Jucundus. Usando quei tre pezzi, si arrivava alla soluzione.

La terza sera si ricompose il circuito di traduzione che aveva per protagonisti Tiburtius e la scimmia.

Miacis raccolse tutti i dati dell'indagine.

“Opera in Pompei da qualche mese una strega di nome Vulsinia. La gran parte della gente ignora la sua presenza. È stata chiamata qui da Roma da un gruppo di signore, vecchie, brutte e ricche.

La stregaccia prepara filtri magici con i quali pretende di ringiovanire e di rendere belle le donne più vecchie e più brutte. Il fatto orribile è che Vulsinia, per preparare i suoi intrugli, si serve del cuore dei fanciulli. Qui a Pompei una vecchia mostruosa ha chiesto a Vulsinia di poter riavere la pelle liscia di una ragazza di sedici anni. Vulsinia ha detto che la trasformazione è possibile, purché venga usato il cuore di un bambino di un anno, da uccidere in una notte di luna piena. È evidente che Vulsinia ha rapito Jucundus.

Purtroppo non abbiamo potuto scoprire il nascondiglio della strega. La notte di luna piena si avvicina. Dobbiamo fare in fretta, prima che succeda qualcosa di molto brutto.”

Naso aveva qualcosa da dire. Era un piccolo particolare che prima aveva considerato di nessuna importanza.

“Ho saputo che Vulsinia si vanterebbe di aver inventato una sostanza in grado di eliminare i peli delle donne baffute e barbute. Vulsinia, però, poiché ha a che fare con mogli di uomini ricchi e potenti, ha dovuto far presente che il suo intruglio può essere pericoloso per la salute. Eppure, Vulsinia darebbe anche il braccio destro per potere usare la sua sostanza.”

Un po' dappertutto, sui muri delle case, vicino alle botteghe ed alle taverne più frequentate, una mano ignota, operando nottetempo, aveva scritto un annuncio:

“Sono una ricca signora. Da anni non posso più uscire di casa. Lunghi peli hanno ricoperto tutto il mio corpo. li tolgo e crescono immediatamente. La vergogna mi tiene chiusa in casa. Cerco disperatamente qualcuno che sia in grado di vincere il mio male. Mi sottoporrò anche a cure pericolosissime. Ormai, che importa... è come se fossi già morta. Chi vuole rispondere, scriva il suo messaggio vicino alla taverna di Asellina.”

La risposta arrivò prestissimo. “Oh, la mia povera signora baffuta e barbuta, trovati domani nello spazio sopra il teatro. Io, tua salvatrice, sarò lì non appena lo spettacolo sarà iniziato. Copri bene i tuoi peli abbondanti, ma porta un fiore rosso. Sarò io a farmi riconoscere. Guarirò il tuo male definitivamente.”

L'indomani, all'ora consueta, lo spettacolo era appena iniziato. Il pubblico era tutto occupato a seguire gli attori preferiti e nessuno badava a quello che avveniva in alto, nello spazio prima del teatro.

Apparve una persona che camminava goffamente, come se non lo facesse da anni e anni. I vestiti da donna la coprivano tutta, finanche la faccia, ma non riuscivano a nascondere un tratto delle braccia e delle gambe, pelosissime. Aveva un fiore rosso in mano ed era sorretta e guidata da un bambino dall'aria molto intelligente. Sui primi scalini del teatro c'era un venditore di cose da mangiare. Poco lontano se ne stava un gatto in atteggiamento indifferente. Su un muro, una civetta stava immobile, tutta intenta a rimanere vigile ed a reprimere i suoi tic spaventosi.

Sbucando da chissà dove, una vecchiaccia si avviò con prudenza incontro alla signora pelosa. Quando le fu davanti disse, con tono falsamente gentile: “Mia buona signora, ti guarirò. Abbi fiducia.”

Fu questione di un attimo. La scimmia si liberò dalle sue vesti e smise di fingersi la donna pelosa, baffuta e barbuta. Si gettò sulla vecchia strega, imitata prontamente da Tiburtius. Il venditore di cose da mangiare, che era in realtà Naso, si buttò anche lui nella mischia. Arrivò il gatto. La civetta volò in un istante sulla testa di Vulsinia. Cominciò una lotta furibonda. Ma il pubblico del teatro non si accorse di niente.

Vulsinia aveva una forza insospettabile. Naso gridava continuamente: “Dicci dov'è Jucundus.” Il gatto e la civetta graffiavano. Tiburtius e la scimmia Matrona davano colpi. La strega, tutta sanguinante, pur continuando a battersi bene, era costretta ad andare indietro. Alla fine, inciampò sul primo gradino di quello scalone pericolosissimo che portava giù, fino al cuore del teatro. La donna, perso ogni controllo, precipitò giù rotolando, seguita dal gatto e dalla civetta.

Il pubblico si accorse, finalmente, della lotta e cominciò a ridere, pensando che quella cosa facesse parte della commedia.

La donna arrivò in fondo. Il gatto cominciò ad annusarla dalla testa ai piedi, mentre la civetta volteggiava intorno. Ad un tratto, il gatto, velocissimo, risalì le scale e si affrettò a dire agli amici: “La strega è morta. Ma ho sentito bene il suo odore. Sono in grado di trovare la sua casa. La giornata senza vento lo permette. Seguitemi...”

Il gatto inspirò profondamente, si orientò e cominciò a correre, seguito dai suoi amici. La civetta volava, seguendo dall'alto il percorso degli altri.

Il gatto prese con decisione via dell'Abbondanza, la percorse per un tratto, e poi infilò uno dei vicoli laterali. Questo era ostruito, poco dopo l'imboccatura, da una portantina sorretta da alcuni uomini. Il gatto saltò attraverso la portantina, seguito dai suoi amici. Miacis aveva solo sfiorato il passeggero, ma gli altri che correvano, scegliendo la stessa strada, furono decisamente meno gentili con il trasportato, un ricco e grasso mercante. Il grassone fu scaraventato, fu scavalcato rudemente da Naso, da Tiburtius e dalla scimmia Matrona, mentre la portantina, non più sorretta da nessuno, precipitava a terra. Il mercante si massaggiava il dolorante pancione calpestato e gridava contro quelli che lo avevano preso per un pezzo di strada.

Miacis aveva ragione. La traccia odorosa era forte e chiara. L'animale correva al massimo delle sue possibilità. Gli altri, per tenergli dietro, buttavano all'aria ogni cosa al loro passaggio. Le strade di Pompei erano, a quell'ora, affollatissime. I marciapiedi erano pieni della merce più varia e popolati dalle persone più strane.

Un indovino prediceva il futuro ad una donnetta sotto un telone sorretto da una debole struttura di legno. L'individuo guardava verso l'alto. Aveva appena detto: “Possa io non più vedere il cielo, se quello che ti ho detto non è vero”, quando una mossa della scimmia in corsa fece crollare il telone. La stoffa cadde sulla donnetta e sull'indovino, facendo cadere sui due l'oscurità completa.

Al passaggio degli amici, le cassette di frutta, di verdura, i formaggi venivano rovesciati. Tutta quella buona roba rotolava dappertutto, tra la disperazione dei mercanti.

Ad un tratto, la corsa fu rallentata dall'intralcio causato da un'intera scolaresca che, come al solito, faceva lezione per strada. Il gatto riuscì a sgusciare attraverso i bambini, ma gli altri furono bloccati e, per riprendere il contatto con la loro guida, dovettero ricorrere alla civetta. Dall'alto, Atena tutto osservava, tenendosi sempre pronta per i casi di emergenza.

La scimmia Matrona finì con l'essere depilata veramente su una vasta zona di un braccio. Nella foga si trovò, senza potersi scansare, nella traiettoria di un barbiere che, come tanti suoi colleghi, lavorava all'aperto.

Eccitato com'era, il gatto sbagliò a calcolare lo sforzo necessario per superare un ostacolo improvviso. La strada, infatti, venne improvvisamente ostruita da quattro uomini. Essi reggevano assi di legno alle quali era attaccato un vaso gigantesco con i manici, contenente salsa di pesce. Miacis si precipitò nel vaso, ed avrebbe sicuramente trovato la morte che sognava (morire affogato nella salsa di pesce), se Matrona non fosse intervenuta prontamente. Essa spaccò con il taglio del piede il vaso. Naso afferrò il gatto mezzo annegato e mezzo estasiato, e lo buttò in una vasca piena d'acqua. Miacis ebbe attimi di esitazione, perché il suo odorato era stato scombussolato. Con un grande sforzo di volontà si riprese, ritrovò la pista odorosa e ricominciò a correre.

La scimmia, rimettendosi a sua volta in moto, andò a sbattere contro un poetastro di strada che vendeva pergamene con le sue poesie. L'urto con la scimmia lo fece cadere a terra. Matrona si ritrovò sulla testa la corona di alloro che prima era sul capo del poeta. Alla scimmia piacque moltissimo l'acquisto e, per non perderlo nella corsa, si mise a reggerlo con una mano.

Mentre la folle corsa continuava alle spalle dei nostri, tutti i danneggiati avevano organizzato una spedizione punitiva. Questa era capeggiata dal grasso mercante, che incitava alla vendetta quanti, ed erano molti, avevano avuto le merci distrutte, buttate nel fango, ormai non più vendibili.

La scimmia rallentò davanti alla bottega di un panettiere che vendeva grossi dolci pieni di miele. Si fermò, e cominciò a tempestare di torte il ricco mercante e tutti quelli che volevano dare una lezione ai loro danneggiatori. Finite le torte, Matrona si leccò le dita e ricominciò a correre. Ma quelli, dietro, ancora più infuriati, ripresero l'inseguimento. Si fecero, in breve, pericolosamente vicini ai nostri. Quasi al volo, la scimmia, con il taglio delle mani, ruppe degli enormi vasi colmi d'olio. Il liquido inondò il vicolo. Tutti gli inseguitori prima ballarono sull'olio e, poi, caddero a terra. La civetta, per completare l'opera, si fermò su un tetto dissestato e, con un abile gioco di zampe, riuscì a far cadere molte tegole in testa agli ormai definitivamente sconfitti ed unti ex inseguitori.

Quando mancava poco a che tutti i nostri amici scoppiassero, Miacis si infilò in una casa da un buco, Naso sfondò la porta e, seguito dagli altri, trovò, dopo una breve ispezione, Jucundus. Il povero bambino, magro, con il terrore nei grandi occhi sbarrati, era stato legato ad una sporca culla dalla terribile Vulsinia.

Miacis, terminata la sua opera, era stramazzato al suolo, vicino al lettino.

Anche se erano stanchissimi, gli amici decisero di tornare immediatamente a casa del barbiere, per poter prestare le necessarie cure al bambino.

La civetta Atena fu mandata in avanscoperta. Essa doveva individuare strade sicure, per essere ben certi di non trovare le persone danneggiate dalla corsa.

Questa volta, la processione era aperta da Naso, che reggeva trionfalmente Jucundus, ed era chiusa dal gatto, senza più né forza né fiato.

Questa storia finisce in modo puzzolente, così come era cominciata, parlando, cioè di salsa di pesce.

Dopo tutto quello che aveva fatto, Miacis ben meritò, con sua grande soddisfazione, chili su chili di maleodorante salsa di pesce della migliore qualità.

L'essere che, invece, era rimasto più scosso da quell'avventura era la civetta Atena. Spesso era preda di un acutissimo nervosismo. Girava la testa a destra e a sinistra, a velocità spettacolosa. Arruffava le penne della faccia, producendo terribili ed insistenti "kvun, kvun" che facevano inferocire i vicini.

Questioni religiose


 Quando sentiva che stava per succedere qualcosa di brutto, a Miacis facevano male le estremità delle zampe.

Facendo infuriare il gatto, che teneva molto ai suoi poteri di indovino, la civetta Atena diceva che al suo amico facevano male i calli.

In ogni caso, fu grazie al dolore alle zampe, o ai calli, secondo un'altra versione, che i nostri amici si salvarono.

Il gatto, dopo aver a lungo riflettuto sulle sue zampe, fu perentorio: “Dobbiamo andar via da questo posto. Al più presto possibile. Il dolore si è fatto insostenibile. So calcolare la portata della disgrazia che dovrà accadere dall'intensità del fastidio. Ebbene, sono sicuro che di qui a poco dovrà manifestarsi una terribile calamità.”

Atena, Naso, Tiburtius e Matrona avevano qualche motivo per rimanere a Pompei. Il solo Jucundus era indifferente, perché era troppo piccolo.

Quelli che erano in grado di capire non ne volevano sapere di abbandonare la città.

Il gatto minacciò anche di andarsene via da solo, e di abbandonarli al loro destino. Neanche questo servì a smuovere l'indolenza del gruppo.

Sembra che i gatti abbiano molti poteri magici. Utilizzandoli, Miacis suggerì a Matrona, che era particolarmente impressionabile, la visione di Pompei sconvolta da una pioggia di fuoco e da torrenti di terra bollente.

Matrona, sconvolta come non lo era mai stata, si precipitò da Naso, per fargli intendere quello che aveva visto.

Il barbiere si fece pensieroso. “Su un cattivo presagio si può ridere. Se ce ne sono due, è bene essere prudenti e valutare il da farsi.”

Si era aperta una falla. Miacis ci lavorò sopra astutamente, come solo un gatto sa fare. Riuscì, infine, a convincere l'intera compagnia ad abbandonare Pompei.

Sistemarono se stessi e le loro cose su un carro trainato da un bue e cominciarono il loro viaggio verso una nuova città. Quando furono in vista di Napoli, loro destinazione, Miacis annunciò che non avvertiva più nessun dolore.

Dopo qualche tempo, Pompei venne distrutta da uno dei più grandi cataclismi dell'antichità.

Si sapevano adattare bene i nostri amici. Innanzitutto, con gli ultimi risparmi di Naso, riuscirono ad affittare una casetta in un vicolo nei pressi del decumano centrale, non lontano dal Foro. La padrona di casa aveva posto una condizione: “Non voglio animali nei locali di mia proprietà!” Era facile nascondere o non far per niente apparire Atena e Miacis. Il problema vero, di fronte al divieto, era Matrona. La questione fu risolta presentandola come un cugina di Naso trasformata da un mago perfido in una scimmia.

Naso non tardò a trovare nel Foro uno spazio dove esercitare, all'aperto, la sua attività di barbiere. Per la sua abilità non tardò a farsi una buona clientela. Tiburtius andava a scuola sempre nel Foro, con un maestro severissimo. Matrona badava alle faccende di casa. Jucundus era sorvegliato direttamente da Naso, che lo teneva costantemente sotto controllo, anche quando lavorava. Era un miracolo che non avesse tagliato nessuna faccia fino a quel momento.

Atena a Napoli finì con il trovarsi veramente a suo agio. La città era coltissima. Le arti erano protette. Vi si parlava greco, lingua che Atena prediligeva.

La civetta frequentava le Terme ed il Ginnasio, dove poteva ascoltare dotte conversazioni di filosofi, e poeti che leggevano i loro versi.

“Per carità, Napoli è tutta un'altra cosa. Non ha niente a che vedere con Pompei, città bottegaia.”

Atena, dopo la cultura, si concedeva anche altri piaceri, non così elevati come i precedenti. Aveva stretto amicizia con un sacerdote del Tempio di Ebone (il Bacco locale), che, per motivi religiosi e per coerenza, era ubriaco dalla mattina alla sera. La civetta, che non aveva mai toccato vino fino ad allora, volle provare e divenne in men che non si dica una convinta seguace del dio.

Miacis vedeva spesso la sua antica compagna volare nel cielo di Napoli in modo bizzarro. In preda all'alcool, l'uccello cambiava traiettoria in modo pazzesco e si esibiva in un volo in picchiata pericolosissimo. All'improvviso, smetteva di volare, e riapriva le ali a pochi centimetri dal suolo, quando tutti erano sicuri che si sarebbe sfracellata.

Quanto a Miacis, anche lui si andò ad invischiare in faccende religiose. 

Da come veniva additato ed osservato, sembrava che la gente di Napoli non avesse mai visto un gatto. Anche i napoletani, come già i pompeiani, ignoravano che i gatti erano utilissimi nella caccia ai topi. Virtù, queste ultime, ben conosciute agli egizi, che erano talmente entusiasti dei felini da considerarli delle divinità.

Fu Atena a mettere in comunicazione Miacis con una parte della sua terra d'origine, che si era installata a Napoli. In città prosperava una comunità di immigrati da Alessandria d'Egitto. 

Gli alessandrini avevano il loro quartiere, il loro tempio, quello di Iside, e una loro statua, una figura umana che rappresentava il Nilo. La civetta nei suoi giri in stato di completa ubriachezza aveva individuato quella statua, ci si adagiava sopra e cercava di attaccare bottone. Ma il suo interlocutore di marmo non rispondeva. 

Il capo dei sacerdoti del tempio di Iside notò l'andirivieni della civetta, e, dopo aver controllato l'elenco degli animali sacri, si apprestava a scacciarla, quando il suo occhio cadde su Miacis. Il gatto stava gridando alla sua amica: “Scendi giù, vecchia pazza ubriaca!”

Il sacerdote ebbe un tuffo al cuore. Si riprese prontamente. “Tu sì che sei un animale sacro!” Si inginocchiò e fece ampi cenni per invitare il gatto ad entrare nel tempio.

“Qui ci scappa qualcosa di buono” pensò Miacis, capendo subito la buona disposizione dell'uomo.

Infatti, gli fu subito servita una scodella di cibo. Miacis mangiò solo qualche boccone.
Nel corso di una cerimonia solenne, Miacis venne presentato all'intera comunità degli alessandrini. 

“È Iside che ce lo ha mandato. E' un suo dono. A noi il compito di onorarlo e servirlo. Propongo di nominarlo custode onorario del tempio.”

Miacis sembrò degnarsi di accettare la carica, ma fu molto restio a ricevere i regali che gli venivano fatti. Il fatto è che era ormai disabituato alla cucina egizia, e mangiava solo alla romana, anche se, per via del suo brutto caratteraccio, mostrava di non apprezzarlo.

Il sacerdote egizio decise anche di far sapere a tutta la città, attraverso un messo, che Miacis era animale sacro alla comunità degli alessandrini. Nessuno quindi doveva impossessarsene o fargli del male.

Il gatto scorrazzava liberamente nelle strade e, forte della sua sveltezza, non esitava a rubare e a mangiare quello che più gli piaceva, l'abominevole salsa di pesce dalle taverne e dalle cucine di certe case che aveva imparato a conoscere.

Miacis non poteva passare inosservato. Per la regolarità delle sue malefatte, cominciò a serpeggiare il malcontento tra le vittime delle sue ruberie. I poveretti, riunitisi in comitato di protesta, andarono a bussare alle porte del tempio di Iside.

“Se l'animale è sacro per voi, pagate per i danni che fa.”

Il sacerdote, che era un po' avaro, dovette a malincuore assicurare che la comunità egizia avrebbe pagato per le malefatte di Miacis.

Il conto che veniva portato al tempio si faceva ogni giorno più salato. Miacis pensò: “Per quello che questi farabutti degli osti mi addebitano dovrei mangiare come un paio di tigri.”

Mentre Atena aveva scoperto a Napoli grossi interessi culturali, Miacis ebbe invece una crisi religiosa. L'offerta era ampia: c'erano molti luoghi sacri e molti sacerdoti. Nel corso delle sue interminabili scorribande fece una capatina nel tempio di Cerere. Si guardava in giro come farebbe un qualsiasi turista, quando una sacerdotessa svenevole, Tettia Castia, cominciò a mandargli bacetti.

“Che vuole questa pazza?” pensò il gatto.

“Mi avevano parlato di te. Ma non immaginavo che fossi tanto bello. Vieni qui. Fatti accarezzare la morbida pelliccia.”

“Fallo pure” si disse Miacis. “Si dà il caso che oggi sento un gran prurito dappertutto.”

Ad un tratto, il gatto si ritrasse. Tettia Casta cominciò a fare un discorso che non suonava musica alle sue orecchie.

“Sai che la dea Cerere protegge le messi, il grano. I topi scorrazzano nei granai. Mi hanno detto che tu e i tuoi simili date la caccia ai topi in maniera eccezionale. Anche qui conserviamo del grano. La tua opera si può rivelare preziosissima.”

Quando sentiva parlare di lavoro, a Miacis veniva l'orticaria. Fece l'atto di andarsene, ma Tettia, anche se non aveva capito, per trattenerlo, gli offrì il meglio della cucina locale.

Il tempio di Apollo fu una sua scoperta personale. Era un'afosissima giornata di agosto. Faceva un caldo infernale anche per un gatto abituato alle torride temperature africane. Si imbatté provvidenzialmente nel tempio. Aveva imparato che in quei luoghi si stava freschi. La costruzione non gli dispiacque. C'era una grande statua di Apollo, che aveva su una spalla una colomba. “Il dio ha buon gusto” pensò. Apprezzava, infatti, particolarmente la saporita carne dei volatili, di tutti i tipi. 

Il massimo del piacere lo provò scorgendo un bassorilievo. Nella pietra era scolpito il sole che irradiava i suoi raggi benefici. 

“Questo è il massimo. Oh quanto mi piace Apollo, dio del sole!” Si accoccolò soddisfatto sotto il sole di pietra.

Per tutto il tempo che durò il caldo, eccezionale anche per quel periodo dell'anno, se ne stette in permanenza in quel luogo ed in quella posizione.

Miacis, ormai, era conosciutissimo a Napoli. Perciò il gran sacerdote Melancoma non si sorprese. Sapeva che il gatto era in qualche modo conteso tra i suoi colleghi di Iside e di Cerere. Non poteva, quindi, che fargli piacere che l'animale, sicuramente sacro avesse finito per prediligere proprio Apollo. Ringraziò, quindi, il suo dio in una grande cerimonia pubblica.

Miacis non era stato, invece, mandato da Apollo per un qualche misterioso motivo. Ci era venuto e ci era rimasto per l'intero mese di agosto dopo aver fatto un ragionamento contorto:

“È nella natura di un gatto starsene al sole. Quando il sole è troppo forte e fa un caldo infernale, il gatto intelligente se ne sta sotto un sole di pietra.”

Ma, al termine della stagione afosa, l'interessatissimo Miacis abbandonò il tempio di Apollo. Tornò ogni tanto, fugacemente per abboffarsi, quando le sue cacce solitarie non andavano a buon frutto. Non disdegnava, inoltre, Iside e Cerere quando gli girava di andare a mangiare là.

Il più delle volte, però, prendeva liberamente il cibo dalle botteghe e dalle case.

Il comportamento di Miacis scatenò una disputa religiosa talmente grande che, per risolverla dopo una memorabile baruffa in pieno Foro, cioè la piazza più importante, fu necessario l'intervento dei magistrati, capi della città. 

Intanto, nell'intera città di Napoli, si era diffusa la notizia che bastava recarsi al tempio di Iside, dichiarare malefatte, vere o presunte, dello straordinario animale che aveva fatto la sua comparsa in città, ed ottenere, senza colpo ferire, risarcimenti in danaro.

Quella mattina, una folla ordinata, ma vociante, attendeva che il tesoriere del tempio effettuasse i pagamenti. Quando la civetta Atena, completamente ubriaca, dopo aver atteso il suo turno in fila, reclamò i danni perché, a suo dire, il gatto le aveva strappato le penne in un tentativo andato a male di aggressione, la situazione precipitò. Il cassiere chiese l'aiuto del sacerdote, perché non capiva il greco, lingua nella quale l'uccello si esprimeva fluentemente.

Per il sacerdote questo era davvero troppo. Sospese i pagamenti, e si recò come una furia dai magistrati che amministravano la città.

“L'animale non è solo sacro per noi. Mi risulta che il gatto goda la considerazione ed il rispetto anche in altri templi. È protetto dalla sacerdotessa di Cerere, Tettia Castia, e dal rappresentante del dio Apollo, Melancoma. Paghino anche loro per le malefatte del gatto.”

I religiosi nominati dal loro collega furono convocati immediatamente dai magistrati.

Di fronte alla prospettiva di dover sborsare quattrini, ebbero una sola risposta convinta: “Parlate di un gatto. Non lo abbiamo mai visto. Che cos'è un gatto?”

Di fronte alle false risposte, il sacerdote del tempio di Iside non ci vide più e, dimenticando chi era, diede addosso ai colleghi.

Cominciò una zuffa vergognosa, che continuò per il Foro e coinvolse i seguaci degli dei che erano stati incautamente coinvolti nella faccenda.

Ci vollero tutte le guardie della città per sedare la gigantesca rissa. La civetta Atena osservava dall'alto. Il suo volo era come al solito pazzesco. Ma non era ubriaca, si stava solamente sbellicando dalle risate.

Sopra una colonna della grande piazza centrale della città, Miacis osservava, invece, la situazione con grande preoccupazione. Poco ci mancò, infatti, che il gatto venisse proclamato nemico pubblico numero uno della città, che prima del suo arrivo, era stata tranquilla e pacifica.

Terminata l'indegna rissa, i sommi sacerdoti, con le vesti lacere, ecchimosi, contusioni, graffi su tutto il corpo, riuscirono finalmente a recuperare l'uso della ragione. Le loro fedi, ispirate fondamentalmente alla tolleranza, li portavano naturalmente a trovare una via d’intesa, prima che si aprisse un baratro insuperabile. Raggiunsero il pieno accordo su un punto: il gatto era comunque un animale sacro. Onorava l'intera Napoli. Che vivesse dunque a carico della comunità. 

Il magistrato addetto al tesoro della città, schivò prontamente la manovra di addossare alle pubbliche casse il costo del mantenimento dell'animale: “Il gatto è una benedizione per tutti. Perciò chi è derubato si ritenga onorato di essere stato scelto da lui, e non si permetta di chiedere i danni ai templi e tanto meno al tesoro pubblico.”

“Qui si mette in maniera tragica” disse a se stesso Miacis. “Passare dal pubblico al privato è una tragedia.”

Miacis capì che, nella sua nuova posizione, non poteva più permettersi di rubare ai bottegai, ai tavernieri e ai cittadini. Privati dei risarcimenti, quelli avrebbero messo sicuramente in pericolo la sua incolumità personale.

Per un bel po' sparì dalla circolazione. Anche se era febbraio e faceva un freddo boia, si andò a rifugiare sotto il sole di pietra del tempio di Apollo.

Un giorno, fu avvisato da Atena che, ormai, di lui non si parlava più né alle terme né al Foro. Poteva uscire alla luce del sole, quello vero.

Miacis fu prudentissimo. Mangiava solo quello che gli veniva offerto nei tre templi e non si permetteva di rubare a destra e a manca.

Finì con il diventare un animale rispettabile, oltre che sacro.

Mettere su famiglia


L'imperatore era convinto di essere un cantante bravissimo. Voleva, anzi, essere riconosciuto come il più importante artista mai esistito. Per ottenere la consacrazione definitiva, decise di essere applaudito in Grecia, culla della cultura dell'impero. 

Prima di fare il salto al di là del mare, fece una prova generale a Napoli, città molto vicina a Roma, nella quale si respirava, culturalmente parlando, un'aria decisamente greca.
L'imperatore volle fare le cose in grande ed avere la sicurezza che tutto andasse nel verso giusto.

Per giorni e giorni, nel teatro di Napoli, a ridosso del Foro, ci furono le prove generali. Beninteso, non dei suoi canti, ma degli spettatori che dovevano applaudirlo a regola d'arte. 

I più bravi, in quel genere di cose, erano gli alessandrini. Essi sapevano, se opportunamente pagati, contemporaneamente applaudire e dare gomitate nei vicini, per indurli ad applaudire pure essi. Il pubblico era sistemato in modo tale da alternare sempre un alessandrino pagato ed un napoletano, che non aveva ricevuto il becco di un quattrino. Le casse dell'impero, infatti, erano quasi vuote, e non ci si poteva permettere di comprare tutti gli spettatori.

Miacis cominciava ad avere le scatole piene di essere un animale sacro. Dopo lungo tempo passato a starsene da solo, aveva cominciato di nuovo a frequentare le vecchie amicizie.

“Non voglio essere più un gatto speciale. Voglio essere un felino come tutti gli altri. Magari più rispettabile, ma normale. Sogno di farmi una famiglia e di avere una moglie e tanti figli” aveva confessato ad Atena.

L'uccello aveva osservato: “Ma sei l'unico rappresentante della tua specie a Napoli, così come lo eri stato in Pompei.” 

Miacis non era più tornato sul discorso ed i due, ripresi i loro antichi incontri notturni, avevano concentrato la loro attenzione sui preparativi dello spettacolo imperiale. Erano indignatissimi per quella storia degli alessandrini pagati per applaudire e per i poveri disgraziati, che dovevano essere presi a gomitate, per fare la stessa cosa.

Alla fine si decisero ad organizzare anche loro qualcosa di molto speciale per l'augusta rappresentazione.

Il concerto ebbe finalmente inizio. Dopo la prima e la seconda canzone, il teatro quasi crollò per gli applausi e le grida di entusiasmo. 

La terza canzone era quasi giunta al termine, quando, dopo una lunga serie di "miao" strazianti, che erano senz'altro dei segnali convenuti, un'orda di colombi, istigati da una civetta, cominciarono a scacazzare sull'augusto imperatore e sul pubblico.

Gli spettatori abbandonarono seduta stante il teatro per andarsi a lavare, lasciando l'imperatore sul palco allibito e scacazzato.

Ormai Miacis, dopo la prodezza al teatro, aveva perso le antiche protezioni. Le guardie dell'imperatore cercavano lui ed Atena per farli a fettine. I due amici se ne dovettero stare nascosti per sei mesi. Fortunatamente, l'imperatore cambiò. Il nuovo trovava il suo predecessore un grande pagliaccio e quelli che si erano opposti a lui dei benefattori dell'umanità.

Miacis ed Atena poterono ritornare a percorrere senza pericoli le vie di Napoli.

Miacis si abbandonò a nuove confidenze: “Immagina come sarebbe stata la faccia dell'imperatore se, invece di essere solo un gatto a miagolare, ce ne fossero stati a decine.”
“È sempre la stessa storia: a Napoli ci sei solo tu.”

“Perciò devo farmi una famiglia.”

Tiburtius era molto bravo a disegnare. Parlandogli alla vecchia maniera, con Matrona come interprete, Miacis gli chiese un favore.

“Ricordi? A Pompei un artista mi volle come modello.”

“Certamente, fece un bellissimo ritratto di te, a mosaico. Mi è rimasto bene impresso nella mente” rispose prontamente il ragazzo.

“Ebbene, amico mio, allora, ti prego, copia su piccoli pezzi di papiro, a memoria, decine di copie di quella mia riproduzione artistica.”

Tiburtius si impegnò ed, in pochi giorni, consegnò a Miacis quanto il gatto aveva chiesto.
La prima parte del piano era realizzata. Ora toccava ad Atena. 

Poiché tra pennuti ci si intende molto bene, la civetta convinse facilmente le rondini, che stavano per ritornarsene nei paesi caldi, a lanciare un messaggio in Egitto. Il paese africano pullulava di gatti e, soprattutto, di gatte.

La comunicazione, che conteneva anche il famoso ritratto, si esprimeva in questi termini: “Gatto di bell'aspetto, robusto, con invidiabile posizione sociale, cerca una compagna avvenente, di buon carattere, con grande istinto materno e disposta a trasferirsi a Napoli. Il clima è mite e il cibo abbondante”. 

Il messaggio che, naturalmente, era firmato da Miacis, fu lanciato in decine di esemplari sull'Egitto dalle rondini servizievoli.

Passarono lunghi mesi. Miacis viveva in un'attesa trepidante, ma mascherava molto bene il suo stato. Le rondini erano ritornate. Non c'era stato uno straccio di risposta. Miacis aveva, alla fine, perso ogni speranza. 

Un bel giorno di primavera, una civetta in evidente stato di ubriachezza, procedendo a zig zag, concluse la sua folle corsa addosso a Miacis. Il gatto, che stava prendendo il sole sugli scalini del tempio dei Dioscuri, pronunciò le peggiori ingiurie.

Atena non ci fece caso. “È arrivata, è arrivata!”

“Ma chi è arrivata?”

“Tua moglie, per bacco! Ha un elegante pelo rosso.”

Miacis si precipitò al porto. Lì una gatta con i begli occhi dolci si guardava intorno e annusava l'aria per mettersi sulle tracce di quel felino napoletano che aveva inondato l'Egitto con il suo annuncio matrimoniale.

Si piacquero a prima vista. Fu una coppia molto affiatata. Vissero a lungo ed ebbero molti figli, ed uno sterminato numero di nipoti.

Miacis è stato dunque il capostipite delle migliaia di gatti che popolano oggi la città di Napoli. Se qualcuno è interessato al suo aspetto, può andare ad ammirarlo nel Museo Nazionale di Napoli. Lì, infatti, è conservato il famoso ritratto a mosaico di Miacis, che fu ritrovato nelle rovine di Pompei. Del famoso annuncio matrimoniale, invece, gli archeologi non sono riusciti a trovare neanche una copia.


Porzio e Mimula


Atena era stata introdotta ai segreti del vino da un sacerdote, Lucio Trifolone. Abbiamo indicato quest'ultimo come sacerdote di Bacco. Lo abbiamo fatto per semplicità, perché tutti sanno che Bacco è il dio del vino. In realtà non si trattava di Bacco, bensì del dio Ebone, una divinità napoletana, in tutto simile all'altro essere soprannaturale.

Il sacerdote di Ebone, Lucio Trifolone, sparì all'improvviso, lasciando la civetta Atena nel più cupo sconforto. L'uccello era rimasto senza una guida che lo potesse orientare a colpo sicuro tra le anfore della bevanda preferita da entrambi.

Lucio Trifolone era anche un mago, come tutti gli altri sacerdoti di Ebone. La sua capacità di operare sortilegi, superiore a quella dei confratelli, lo aveva, però, perso. Ma, poiché nelle disgrazie c'è sempre qualcosa di positivo, l'errore di Lucio aveva innescato una storia, che spazia dal presente al passato di Napoli.

Era accaduto che il sacerdote aveva apprezzato talmente il contenuto di una grossa anfora di vino, da rimanere in breve ubriaco fradicio.

Nello stato di dolce incoscienza, aveva pronunciato una potentissima formula magica, facendola seguire dalla frase: “Potessi io, come puro spirito, rimanere imprigionato nell'anfora che ha avuto il privilegio di contenere un così buon vino.”

Detto, fatto. Lucio era scomparso. Il suo spirito si era trasferito nell'anfora. Di lui si era perso, con l'andare degli anni, il ricordo. La cantina del tempio di Ebone, per strane circostanze sopravvenute, era stata murata con il suo contenuto di anfore e vasi.

I secoli erano passati. Ora, su quel luogo, in un vicolo adiacente ad una delle strade principali dell'antica città, c'era un grosso palazzo cadente ed abbandonato.

La dolcissima Mimula, una ragazza di quindici anni tra le più belle dell'antica Napoli, danzava in maniera divina. Non c'era nessuna che potesse starle alla pari, quando imitava il moto della foglia scossa da un movimento dell'aria, che da alito si trasformava gradatamente in vento impetuoso. Era richiestissima per danzare nei templi. Per la sua bravura, c'era chi pronosticava che avrebbe presto danzato per l'imperatore.

Chiamata nel Tempio di Ebone, volle strafare. Salì su un pozzo ed iniziò i suoi leggeri movimenti. Mise, però, un piede in fallo e cadde nel pozzo. I suoi genitori morirono subito dopo di lei, per il dolore di averla persa. Prima di lasciare questo mondo, fecero in tempo a collocare una lapide sul luogo dell'incidente. Oggi è possibile leggere solo una piccolissima parte dell'iscrizione: “Qui giace Mimula, baciata dalla Musa della danza....”

Ai giorni d'oggi. Il quindicenne Porzio, orfano di entrambi i genitori, correva su un motorino per le strette vie del centro storico, inseguito dalla polizia. Aveva da poco strappato un orologio d'oro dal polso di un turista.

Altre volte gli era andata bene, ma, ora, per lui non c'era scampo. Due auto e due motociclisti della polizia lo accerchiarono. Nel disperato tentativo di salvarsi, proseguì la sua corsa a piedi. Si trovò davanti a un palazzo diroccato. Scavalcò alcune assi che chiudevano malamente l'ingresso, ed entrò.

Una forza sconosciuta condusse il ragazzo verso la cantina. Qui, mentre sentiva i passi concitati dei suoi inseguitori, capì che la sua via di fuga non portava da nessuna parte. Disperato, si lanciò contro una parete. Meraviglia! Un passaggio segreto si aprì, per chiudersi subito dopo l'ingresso di Porzio.

Il giovane non era un incallito delinquente. Fondamentalmente, era buono e generoso. Le avversità della vita e la mancanza di una guida lo avevano condotto su una strada sbagliata.

Non aveva nessuno che pensasse a lui. Era orfano da alcuni anni. Nessun parente - eppure erano ricchi - l'aveva voluto. Era stato rinchiuso in un istituto per l'infanzia abbandonata. Aveva uno spirito indipendente. Era fuggito e, per mantenersi, aveva iniziato una vita randagia, fatta di piccoli furti. Chiuso in riformatorio, era fuggito anche di lì.

La luce filtrava chissà da dove. Porzio si trovò in un luogo stranissimo. Pezzi di coccio erano dappertutto. Al centro del vano c'era una sola anfora intatta.

Il ragazzo si stropicciò gli occhi per vedere meglio. Individuò qualcosa. Si ritrasse impaurito: uno scheletro!

Nel farsi indietro, perse l'equilibrio. Si aggrappò all'anfora, e finì col trovarsi a terra con l'anfora addosso.

“Stai attento, imbecille! Non vorrai rompermi proprio ora, dopo duemila anni.”

Qualcuno aveva parlato. Porzio si fece bianco come un cencio. Cominciò a tremare.

Mentre il terrore si stava impadronendo di lui, la voce di prima intonò una cantilena in una lingua sconosciuta. Quello che Porzio riuscì a capire è che era la voce di un ubriaco.

Il giovane si rincuorò: si trattava, evidentemente, di un fantasma ubriaco, che è sempre meglio di un fantasma sobrio.

“Sono qui, sono qui.” Porzio si guardò intorno. Non c'era nessuno.

“Sono nell'anfora, stupido!”

Il ragazzo si rialzò con estrema cautela, badando che l'anfora, ancora addosso a lui, non riportasse alcun danno.

“Ce l'abbiamo fatta, bravo” fece la voce.

Porzio controllò il grande vaso palmo a palmo, ci mise le mani dentro. Il recipiente era completamente vuoto.

“Sono nell'anfora, non l'hai capito? Ed ora passiamo alle presentazioni. Sono Lucio Trifolone. E tu sei Porzio. Butta via subito l'orologio che hai rubato se vuoi stare qui. Altrimenti strillerò talmente forte che la polizia verrà qui e ti arresterà.”

Porzio, che era in preda ai sentimenti più disparati, paura, sorpresa e meraviglia, gettò l'orologio lontano da sé.

“Ora sì che possiamo ragionare, anche se io ho delle difficoltà. Sai, sono duemila anni che sono ubriaco.”

Porzio, che si era in qualche modo abituato a quella diavoleria, indicò lo scheletro. “Cos'è quello?” balbettò.

“Non ti fermare alle apparenze, è una mia amica. Vista così, non si direbbe. È una falsa magra. Ti assicuro, che è una bellissima ragazza, pressappoco della tua età, con duemila anni in più. Quando ne ha voglia, danza per me. È uno spettacolo bellissimo. Sta muovendo la mascella?”

“Sì” rispose Porzio, guardando con terrore quel teschio che batteva i denti.

“Ha fatto segno che vuole conoscerti. Te la presento subito.”

Lucio pronunciò una delle sue incomprensibili formule magiche. Lo scheletro, come risucchiato da una forza misteriosa, si sollevò in piedi. Seguì un bagliore accecante. Si presentò, nel suo vestito di tanto tempo prima, la più bella ragazza che avesse mai visto. 

Mimula accennò un passo di danza, mentre la voce faceva le presentazioni. 

Anche Porzio era un bel ragazzo. Successe allora quello che accade nelle favole, quando due giovani così si incontrano. Si innamorarono a prima vista.

Un frullare d'ali fece trasalire Porzio, che quel giorno stava provando emozioni su emozioni.
Una civetta entrò per un buco e, subito, sbottò: “E chi è questo qua?”

L'uccello che era stato così legato a Lucio non poteva abbandonarlo, anche quando il suo amico si era trasformato in puro spirito. Per parte sua, il sacerdote aveva sortilegi per ogni occasione e circostanza, anche per non far morire mai un uccello. Aveva una solo problema: non poteva uscire dalla trappola in cui si era cacciato. L'aiuto di un essere umano vivente, che avesse fatto certe cose, gli avrebbe consentito solo di sciogliere in parte l'incantesimo.

Porzio, quando si riebbe dallo spavento, disse: “Chi sei tu? Sembri avere mille anni.”
“Poco meno di duemila, prego” fece acida la civetta.

Mimula non tardò a stare con la sua mano nella mano di Porzio. “Non danzi, dunque” fece la voce con un tono sornione. La ragazza non rispose a quella domanda. Erano secoli che aveva molta confidenza con l'antico sacerdote di Ebone.

“Sento di amare questo giovane.”

“Come correte voi giovani d'oggi” la interruppe la voce. Mimula, spazientita, continuò: “C'è un problema. Apparteniamo a due epoche diverse. Ci separano secoli e secoli. Come possiamo fare? Sei un mago potente. Trova tu una soluzione, per favore.”

Ci fu un lungo silenzio. Lucio Trifolone o stava riflettendo su una situazione molto complicata, o non voleva rispondere.

Mimula che era decisa, quanto bella e dolce, passò alle minacce: “Se non risolvi il problema alla svelta, giuro che rompo il vaso.”

“No, non farlo. Anche se sono sicuro che non farai una cosa simile.” Poi la voce si schiarì: “L'amore non conosce distanze di spazio, di luogo e di tempo. Detto questo bel pensiero filosofico, riconosco che siete messi male. Avete assolutamente bisogno del mio aiuto, altrimenti non ne uscite proprio. In cambio mi farete un certo favore, di cui parlerò tra qualche giorno. 

Pronuncerò una formula magica. Dopo starete insieme. Scegliete l'epoca. Manderò con voi Atena. Se avrete dei problemi, essa verrà da me, e vedrò come risolverli.”

Sentirono un rumore strano all'interno dell'anfora. “Che diavolo sta facendo?” chiese Porzio.

“Gioca a dadi con se stesso. Lo fa quando vuol passare il tempo o vuol far capire che si è scocciato di parlare.”

“Non posso tornare nella mia epoca” disse Porzio. Là sarò sicuramente arrestato. Decisero così che avrebbero vissuto nella Napoli antica. Atena, mostrandosi visibilmente seccata, obbedì ad un ordine di Lucio. Infilò il becco nell'anfora e tirò fuori vesti dei tempi passati, adatte a Porzio.

Si dovette trattare di una magia particolarmente difficile, perché Lucio Trifolone gorgogliò a lungo dentro l'anfora. Quando, dopo un bel po', la cosa finì, il sacerdote disse: “Andate, figli miei.”

I ragazzi percorsero, a ritroso, il cammino che Porzio aveva fatto prima. Usciti sulla strada, non trovarono più un cadente palazzo, ma il tempio di Ebone, nel suo antico splendore.

Mimula sospirò. Si ritrovava finalmente nella sua città. Porzio, invece, già impacciato per i nuovi abiti, si sentiva a disagio. Notò solo che l'affollamento ed il chiasso per le strade era uguale a quello a cui era abituato nei tempi moderni. 

Delle persone parlavano davanti al Tempio, rammaricandosi per la scomparsa del simpatico Lucio. Facevano mille ipotesi, ma nessuna li convinceva.

Mimula prese il giovane per mano. Gli fece da guida. Visitarono templi, il teatro, l'anfiteatro, lo stadio. Conclusero il giro nel Foro. Porzio guardò ammirato i portici, le statue, l'imponente Tempio dei Dioscuri. 

Una mano toccò Mimula. Era la maligna sacerdotessa Cominia Plutogenia. La giovane danzatrice si accorse della donna e si ritrasse impaurita. Conosceva la cattiveria della donna.

“È un po' che non ti si vede, Mimula. Ci sono mancate molto le tue danze. Verrai sicuramente a ballare per noi, stasera.”

Mimula, intimidita, balbettò: “Ho abbandonato il ballo. Non mi piace più.”

Quella risposta contrariò Cominia. “Questo ci dispiace moltissimo. Credo di capire. Il tuo giovane amico ti impedisce di ballare. Ma a tutto c'è rimedio.”

La sacerdotessa sorrise malignamente e se ne andò. Mimula per un po' rimase preoccupata per le oscure parole di quella donna terribile. Ma i giovani dimenticano presto. I morsi della fame si facevano sentire. Perbacco, erano duemila anni che non mangiava! Anche Porzio sentiva un certo languorino... La giovane condusse il suo amato al mercato, poco distante dal Foro. Non avevano il becco di un quattrino. Questo non costituì un problema. Porzio era un ladro abilissimo, e fece man bassa nei banchetti dei venditori di alimentari.

Si fece sera. Mille fiaccole si accesero. I due non avevano idea di che fare e di come sistemarsi. 

All'improvviso, sbucando da un vicolo buio, fecero la loro apparizione dei brutti ceffi. Uno di essi indicò Porzio e disse: “È lui, è il mio schiavo. È fuggito ieri dalla mia casa. Prendetelo ed incatenatelo.”

Porzio, benché si battesse come un leone, fu presto vinto. Nel frattempo, l'orribile Cominia, si fece avanti scortata da altre donne, che portavano coperte e corde. Mimula stava per essere rapita. “Ora non potrai più rifiutarti di danzare per me. Il tuo giovane bellimbusto andrà a lavorare nelle miniere.”

Mimula, disperata, alzò lo sguardo al cielo. La civetta Atena, che li aveva sorvegliati fino a quel momento, era sparita.

L'uccello era sicuramente andato a riferire a Lucio Trifolone. Perché fu certamente opera sua la sparizione improvvisa dei due giovani. I rapitori, all'improvviso, non trovarono niente nelle catene, nelle coperte e nelle corde.

“Non è cosa, non è cosa” bofonchiava la civetta. I due giovani se ne stavano impauriti, in attesa di un conforto, davanti all'anfora. Dal vaso non usciva nessun suono. Segno che Lucio stava riflettendo sul da farsi.

Dopo un "hic" fragoroso, si sentì finalmente la voce familiare: “La saggia Atena ha ragione. Nel mondo antico ci sono troppi pericoli per voi. Vi manderò nel mondo di Porzio.”

Il ragazzo protestò: “È un errore, sono ricercato dalla polizia. Mi acchiapperanno in men che non si dica.”

“Ti condanneranno al lavoro nelle miniere, o ti metteranno a remare in una trireme?”

“No, niente di tutto questo. Ma mi manderanno al riformatorio.”

“Sei un giovane di mille risorse. Può essere che riuscirai a cavartela. Altre idee al momento non mi vengono. Dovete pur ricordare che sono duemila anni che ho la mente un po' annebbiata.”

Porzio, di malavoglia, andò a cercare i suoi vecchi abiti. Mimula, invece, non stava nella pelle. Avrebbe conosciuto il futuro. Toccò ora a lei indossare i vestiti che Atena prelevò dall'anfora. Un paio di jeans ed una camicetta piacquero subito moltissimo alla ragazza.

Porzio uscì con circospezione dal palazzo diroccato. Le cose erano come le aveva lasciate. Anche la sua moto era ancora lì. Non sembrava che ci fossero pericoli.

“Sali sulla moto.”

“Cos'è una moto?”

Mimula era una ragazza molto intelligente. Non impiegò molto a capire che quella era una specie di biga senza cavallo, che, per qualche fatto misterioso, camminava.

Le piacque la sensazione della velocità, il vento sulla faccia.

“Non correre, cretino.” Atena, dall'alto, si spolmonava, ma non riusciva ad avere ragione di quel pazzo motociclista che portava a tutta velocità la sua amata.

I ragazzi andavano felici. Porzio raccontava le meraviglie del suo mondo alla giovane che, emozionatissima, già si apprestava a vedere cose stupende.

C'era, però, qualche forza oscura che ostacolava i due giovani.

Incapparono in un posto di blocco della polizia. Non potettero scappare. Porzio venne subito individuato ed ammanettato. Mimula ebbe la stessa sorte. Piangeva e si disperava, urlando frasi in greco ed in latino.

“Deve essere una studentessa del liceo classico, complice del ragazzo” commentò un poliziotto.

Anche questa volta Atena aveva ben sorvegliato i due giovani. Volò subito ad avvertire Lucio.

I poliziotti si grattavano la testa increduli, dopo aver assistito alla sparizione degli arrestati.

I due giovani riapparivano davanti all'anfora, mogi, a testa bassa.

“Ho dimenticato qualcosa” fece la voce. Le manette si aprirono e caddero a terra.

“Ho capito tutto” fece, poi, Lucio, che sembrava meno brillo del solito. “Anche se il vostro amore è grandissimo, e l'amore, poi, come sappiamo, non conosce ostacoli di tempo e di spazio, la faccenda è lo stesso complicata. Non potete vivere normalmente insieme nel presente o nel passato. O voi siete troppo sfortunati, o io non sono all'altezza.”

“Che dobbiamo fare, allora?” fece Porzio disperato.

“Una soluzione ci sarebbe. Bisogna, però, che io esca da questo vaso. Ci vuole l'aiuto di un essere umano vivente. Tu, Porzio. Conosco, però, il mio destino. Anche con il tuo aiuto, potrò uscire libero solo di notte. Di giorno dovrò rimanere rinchiuso nell'anfora.

Quanto a voi, cari ragazzi, siete disposti, pur di stare per sempre insieme, ad assumere qualunque forma e stato?”

I due si guardarono negli occhi e dissero “Sì” nello stesso momento.

Travestito da marinaio fenicio, Porzio percorreva con circospezione il Foro. Era solo, come aveva prescritto Lucio.

Si apprestava ad entrare nel Tempio dei Dioscuri. Un uomo lo fermò. Porzio si sentì perso. Era quello che lo aveva accusato di essere uno schiavo fuggitivo. Fortunatamente l'omaccione non lo aveva riconosciuto. Intendeva solo chiedergli un'informazione sull'ora di inizio di certi riti.

Porzio, con il cuore in gola, farfugliò qualcosa di incomprensibile.

“Scusami” fece l'altro “non avevo capito che eri uno straniero.”

Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo. Porzio entrò nel tempio. Diede un'occhiata intorno. Magnifico! Cercò e, poi, trovò una certa statua descritta minutamente dallo spirito dell'anfora. Tastò in un piccolo buco alla base del monumento. Non faticò a trovare quello che gli interessava, un sacchettino. In quell'istante, alcuni uomini si accorsero dei suoi maneggi. Diedero l'allarme. Porzio cominciò a correre. Era inseguito da molte persone, convinte di trovarsi in presenza di un ladro sacrilego.

Corse a perdifiato per il Foro, fino al Teatro. Poi un incantesimo lo sottrasse ai suoi inseguitori e lo trasportò nella famosa cantina. Ormai aveva preso lo slancio. Continuò a correre anche là dentro, fin quando non andò a sbattere contro una parete. Per poco non era rovinato sull'anfora. 

Fu subito rimproverato: “Cretino! Stavi per distruggermi la casa.

Almeno, hai quello che ti ho detto di prendere?”

Porzio rispose affermativamente, agitando il pugno che teneva stretto il sacchettino. La missione era perfettamente riuscita. Mimula saltellava per la gioia.

Aspettarono la notte. Atena sapeva che stava per accadere un avvenimento portentoso. Era nervosissima. Come le accadeva sempre in quei momenti, girava, a scatti, la testa a destra e a sinistra. Terribili “kvun, kvun” le uscivano dal becco.

Mimula aprì il sacchetto. Conteneva tre monete. Esse riproducevano una testa, di profilo.
“Sono le rarissime monete sulle quali è riprodotto l'immagine del dio Ebone. Hanno un potere magico, ritornavano a chi le aveva spese. Perciò furono tolte dalla circolazione. Ne rimasero tre, nascoste nel tempio dei Dioscuri” spiegò Lucio.

Mimula danzò, e, poi, infilò le monete nell'anfora. Esse avevano anche altri poteri magici, perché, subito dopo, il vaso diventò molle come l'argilla. Da esso balzò fuori, materializzandosi, il proprietario della voce, il sacerdote Lucio Trifolone.

Si stirò, mostrando di essere tutto un dolore. “Benché fossi puro spirito, là dentro ci stavo proprio stretto.”

Lucio era molto grasso. Aveva il naso e le guance di un rosso intenso. I capelli erano color rame. Intorno al capo aveva foglie di vite. Insomma, come sacerdote del dio del vino era molto convincente.

Baciò ed abbracciò, gioviale e sempre brillo, Mimula e Porzio. Atena, a sua volta, allargò le ali, e fu lei, commossa a stringere l'amico.

Lucio spiegò che, mettendo le tre monete magiche nell'anfora, solo una parte dell'incantesimo era stato annullato. Da quel momento in avanti, di giorno sarebbe stato prigioniero nel vaso e, di notte, sarebbe, invece, stato in carne ed ossa, libero di andare dove più gli piaceva, nel presente e nel passato.

“La cosa ha i suoi inconvenienti, ma, comunque, potrò essere utilissimo a voi” fece sornione e sibillino Lucio.

Uscirono insieme dalla cantina. Era notte fonda. Benché si trovassero nella Napoli moderna, erano vestiti da antichi romani. Attiravano, perciò, la curiosità dei rari passanti.
Atena, che li precedeva volando avanti, si sgolava per evitare domande dei nottambuli: 

“Stiamo girando un film storico, in notturna.”

Arrivarono al Museo Nazionale, dove erano conservate le statue delle divinità, degli eroi e dei personaggi importanti, che avevano adornato le piazze, le vie, i palazzi e i templi di Pompei e dell'antica Napoli.

Si avvicinarono al cancello del Museo, e quello si spalancò.

Fu Lucio ad entrare per primo. Si creò una strana atmosfera. Si ebbe la sensazione che cento e cento occhi di marmo si animassero.

Porzio e Mimula, impauriti, si strinsero l'uno all'altra.

Al passaggio di uno dei loro antichi sacerdoti, gli dei tornarono nel mondo degli uomini con il loro potere.

Il buio fu squarciato dalla luce. La statua di Giove mandò lampi e saette. Luccicavano le spade delle divinità guerriere. Un frusciare di ali faceva avvertire la presenza del messaggero degli dei.

Lucio condusse i giovani in un deposito nascosto.

Mostrò loro due basi di marmo. Su una molto grande vi era l'iscrizione "I danzatori Mimula e Porzio", sull'altra, più piccola, si leggeva: "La civetta Atena". “Qui starete di giorno sotto forma di statue di marmo” disse.


 Ogni notte il sacerdote esce dalla sua anfora e torna al Museo Nazionale di Napoli. Passa tra gli dei che si svegliano. Va alle statue di Mimula e Porzio che si tengono per mano, e a quella di Atena, riprodotta con le penne arruffate.

Lucio pronuncia una formula magica. Il marmo si trasforma in carne. I suoi amici tornano alla vita. Porzio e Mimula si abbracciano. Atena si sveglia sempre arrabbiata.

Una forza magica spinge gli strumenti antichi dalle vetrine del primo piano del Museo fino al salone di ingresso. Iniziano a suonare da soli, mentre Mimula e Porzio fanno il loro ingresso. Il giovane ha imparato anche lui a ballare sotto la guida della sua amata.

I due giovani danzano nel Museo fino all'alba, per la gioia degli dei antichi e di Lucio. Atena vola al primo piano, dove è il mosaico che riproduce il suo amico Miacis. La civetta conosce qualche formuletta magica, appresa dall'amico sacerdote. La pronuncia. Il suo vecchio amico gatto, capostipite dei felini di Napoli, si anima anche lui.

“Stasera hai fatto tardi, come al solito” protesta Miacis, che non sopporta di essere mosaico, di giorno.

I due per un po' assistono alla danza, poi se ne vanno in giro fino all'alba per Napoli. Atena sta a sentire i pettegolezzi notturni sui balconi. Miacis va a dare un'occhiata ai suoi discendenti.