La tartaruga del re

da "Il messia meccanico"


Brandelli di storia


Chemma, signore di Avronika, accusò Isa, re di Makaria di essere un despota sanguinario.
Makaria, la perla del deserto, famosa per i suoi inesauribili pozzi di freschissima e limpidissima acqua, era situata in un punto strategico della via delle spezie e la sua presenza costituiva un ostacolo per l'espansione dei commerci di Avronika.

Chemma decise di impadronirsi di Makaria, o, meglio delle sue sorgenti, e inviò, per avere mano libera, ambasciatori in tutti i regni della regione. I suoi emissari magnificarono la mitezza del governo di Chemma e puntarono l'indice accusatore contro l'iniquità di Isa, che teneva il suo infelice popolo in catene. I messaggeri mostrarono delle ampolle contenenti una sostanza verdastra.

“Con questa, che è l'arma più insidiosa che si sia mai vista – spiegarono gli ambasciatori – Isa intende avvelenare l'aria, l'acqua e la terra e impadronirsi di tutta la regione, facendone prima un regno di morte.”

Le azioni di guerra, che venivano, poi, preannunciate contro Makaria, corrispondevano, quindi, a precise ragioni umanitarie: eliminare un pericolo mortale per tutta l'area e liberare gli abitanti dell'infelice regno dal regime oppressivo e spietato di Isa.

Non fu difficile per Chemma ottenere l'avallo degli altri re, così pesantemente minacciati, ed iniziare, subito dopo, un lungo assedio alla città di Makaria per intraprendere quella che era anche una guerra di liberazione.

La resistenza degli assediati fu vana, Makaria, vinta, fu distrutta dalle fondamenta, ma furono preservati i pozzi d'acqua che costituirono la base per le successive fortune commerciali di Avronika.

La storia, per tremila anni, ha tramandato la malvagità di Isa, spietato oppressore di un popolo infelice, la vigliaccheria del suo esercito, ridicola accozzaglia di donnette disconosciute e disprezzate anche dalle madri, e la grandiosità di Chemma, sovrano giusto e generoso, liberatore di popoli oppressi, dispensatore di acque e di spezie, abile condottiero, capo di un valoroso esercito, protettore dell'umanità e preservatore di vita, avendo egli estirpato la minaccia della micidiale prima arma totale di cui mai si sia sentito parlare.

Recenti, importantissime scoperte archeologiche hanno però completamente ribaltato la versione dei fatti fin qui conosciuta. Tra le rovine di Avronika è stato, infatti, ritrovato l'archivio segreto di Chemma, contenuto in migliaia di tavolette di argilla ben conservate. Il dato più eclatante, al quale si è pervenuti dopo aver decifrato i caratteri cuneiformi, è che l'arma “micidiale totale”di cui tanto avevano cianciato gli ambasciatori, era null'altro che formaggio andato a male, preparato ad arte dai caprai di Chemma.

Anche di fronte a queste solide e schiaccianti prove, gli storici, così affezionati alle vulgate consolidatesi solo per effetto dello scorrere del tempo, stentano a riconoscere la versione dei fatti finalmente aderente alla verità, balzata così prepotentemente dalle sabbie del deserto. 

Alcuni, i più ostinati e radicali, sostengono che le tavolette sono dei falsi clamorosi, realizzati in tempi moderni, e se hanno superato gli esami strumentali è perché sono stati bagnati nell'urina del cammello bactriano, che, ingannando gli apparati più sofisticati, è in grado di retrodatare i reperti di ben tremila anni.

La storia è, quindi, riottosa a riconoscere il vero, ma fortunatamente sovviene, per ristabilire l'effettività dei fatti, il misterioso, l'imponderabile, l'arcano.

Eventi straordinari si verificarono nella martoriata città di Makaria, nel giorno esatto della sua distruzione, tremila anni dopo.


Il bassorilievo


Una violentissima tempesta di sabbia sconvolse le fisionomia dei luoghi. Alte dune di sabbia si spostarono e fecero affiorare i resti dell'antica città. Il sole illuminò uno splendido bassorilievo, scolpito su una grande lastra di pietra e appena corroso dal tempo. Sulla sua base si poteva ancora leggere:

A Isa, nostro amato Re, sotto la cui paterna e saggia protezione viviamo in pace e felici, al riparo dalle ingiustizie e dagli arbitri.
Gli abitanti di Makaria


Le cronache successive alla gloriosa guerra di liberazione bollarono le genti del regno sconfitto come i più retrogradi, zotici e ignoranti dell'intera regione, e, certamente, i più infelici, contrariamente a quanto fallacemente affermato sulla piastra istoriata.

Eppure, tra quei rozzi individui c'era stato un gruppo di artisti abilissimi, capaci di realizzare un'opera finissima.

Un provetto uso degli strumenti di scultura aveva realizzato sulla parte superiore del bassorilievo la città di Makaria in miniatura con le sue poderose mura, le mille torri, le case fastose, i cento templi dalle cupole d'oro. Più in basso decine di scene, dove agivano viventi e palpitanti rappresentazioni di figure umane nelle loro pacifiche e tranquille attività quotidiane. 

Sembravano felici, nella pietra, quegli uomini e quelle donne. Ma cosa poteva sapere di vera felicità la vecchina che dava da mangiare alle galline, il pastore addormentato sotto un albero tra le sue pecore, l'innamorato che sbirciava la più bella tra le belle, dalle gote rosse e dai fianchi larghi?

Ma si erano mai interessati di arte del governo, scienza che assicura la prosperità e la reale felicità di un popolo, il contadino che falciava, il falegname che piallava nella bottega, l'avventore che gustava un bicchiere di vino nella taverna, l'oste seduto sulle botti, la madre intenta a stendere i panni e attenta a sorvegliare i figli che giocavano in strada, il carovaniere che abbeverava il cammello alla fontana?

Gli abitanti di Makaria, non intendendosi di politica e avendo una rappresentazione erronea della felicità si fecero poi ammazzare per il loro re. Ma, prima della disfatta finale, ebbero cura di nascondere la tavola di pietra perché almeno la rappresentazione della loro felicità non cadesse nelle mani del nemico.


Stemmata, la Tartaruga del Re


Dopo un letargo durato tremila anni, una tartaruga si risvegliò tra le rovine di Makaria. Aveva trovato un riparo, rivelatosi inaccessibile per trenta secoli.

Lentamente, stancamente, la tartaruga fece un giro intorno a una colonna spezzata.

L'animale aveva un passato glorioso. Per un curioso e inesplicabile accidente della natura, aveva impresso, sulla sommità della corazza, lo stemma reale.

Fu ovviamente carissima al sovrano. Isa curava personalmente che fosse nutrita con le più saporite e tenere foglie di lattuga degli orti reali.

Era inevitabile, perché aveva scolpito sul carapace i simboli del governo spodestato, che l'ira dei liberatori si sarebbe abbattuta contro di lei. Nel migliore dei casi, senza considerare altre e gravi punizioni per la sua stolta opera di propaganda e complicità con il passato regime, il crudele boia di Chemma, con un affilato scalpello, le avrebbe fatto saltare dalla dura schiena il decaduto e irriso emblema.

La tartaruga prevenne le mosse del nemico, si scelse un posto remoto e inaccessibile e cadde in un letargo ad oltranza, dal quale si sarebbe risvegliata, dopo centinaia e centinaia di anni, solo per pochi attimi. Il tempo necessario per mangiare qualche tenerissima foglia di lattuga, apparsa magicamente perché l'ombra di una mano regale potesse degnamente celebrare un lungo sonno, segno di un'inestinguibile fedeltà.


Le madri di Makaria


Era costume di Makaria che chi fosse morto eroicamente in battaglia venisse lavato e profumato, adornato sul capo di una corona delle foglie dell'albero sacro e solo allora deposto sulla pira funebre di legno odoroso.

Anche chi aveva generato l'eroe aveva diritto a portare la corona durante la cerimonia dell'estremo commiato.

E a Chemma, dopo che questi aveva conquistato la città con sanguinosi corpo a corpo in ogni strada e in ogni vicolo, le madri, private dei loro valorosi figli, chiesero con una voce sola, i dovuti onori.

E fu la risposta di Chemma a diventare parola della storia.

“Nessun onore sia riservato a uomini che si sono comportati come pavide donnette e hanno offeso le loro stesse armi. In verità io dico che l'armata di Makaria era un esercito ridicolo agli ordini di un vigliacco. A voi, a donne che hanno generato degli inetti, nessuna corona. Ma avrete salva la vita se disconoscerete e disprezzerete quelli che erano i vostri indegni figli.
I morti non ebbero cerimonie funebri ma furono gettati in pasto alle belve. I feriti, dopo laide e degradanti sevizie e torture, ebbero uguale sorte.

Nessuna madre, contrariamente a quanto falsamente affermato dalle cronache, disconobbe il figlio.

Tutte furono costrette a vagare nel deserto fino allo sfinimento e alla morte.

La fortezza


Tra le rovine della fortezza interna, estremo lembo rimasto alla corona, dopo che il resto del regno era caduto nelle mani dell'esercito liberatore, si ripeté l'assedio di tremila anni prima. Nugoli di frecce oscurarono il cielo, pesanti massi, proiettati da potenti macchine da guerra, caddero dappertutto.

L'ombra di una regina, incurante come allora dei pericoli, si spostava da un punto all'altro delle fortificazioni per confortare, curare, incoraggiare.

Un urlo sovrastò i fragori e la giovane, bella e coraggiosa regina corse verso il centro della piazza d'armi.

La donna, piangente, si accoccolò a terra e sollevò con il braccio il capo di un giovane guerriero e carezzò l'onesto viso del morente, quasi per pulirlo dall'onta della storia, malvagia per i vinti, che si sarebbe mantenuta inalterata per tremila anni.


Il cavallo


L'assedio alla fortezza fu lungo e crudele, la sua rievocazione altrettanto dolorosa.

Gli assediati morivano di inedia, per le malattie e le ferite mortali provocate dalle frecce e dai macigni che cadevano senza tregua.

C'erano cavalli all'interno delle mura fortificate. Non ci fu di che nutrirli. I resistenti chiesero una tregua per permettere alle bestie di uscire da quell'inferno. Ma Chemma, il liberatore, rifiutò di compiere quell'atto di pietà, peraltro ininfluente ai fini della sua definitiva vittoria.

L'ultimo cavallo sopravvissuto morse, disperato e impazzito, i carri, le porte e qualunque cosa di legno avesse a tiro, prima di accasciarsi, sopraffatto da una morte orribile.

Finalmente liberato, il cavallo poté lanciarsi contro le mura della fortezza, trapassarle e galoppare in tutta la regione, nitrendo senza tregua, per affermare la sua riconquistata libertà.

La cerimonia


Nella notte dell'anniversario, tremila anni dopo, apparvero sulle rovine di Makaria, per un solo istante, cento e cento lapidi che mai nessuno aveva scolpito e mai nessuno aveva esposto. 

Dai marmi si manifestarono le ombre di quelli che sarebbe stato ridicolo celebrare, perché morti per un esercito vinto e dileggiato.

Le trasparenti presenze si avviarono verso la grande piazza davanti alle rovine del palazzo reale.

Tra suoni sordi e incessanti di tamburi e il garrire di laceri stendardi, chi era stato re salutò mille madri consumate dall'arsura, dalle pene e dalle lacrime.

Fu lunga la cerimonia. Durò il tempo necessario per onorare degnamente i caduti e per coronare finalmente con le foglie dell'albero sacro tutte le madri.

Il re si dispose al fianco dell'aiutante che reggeva, su un cuscino di seta, la fedele Stemmata, adagiata tra le foglie di lattuga degli orti reali. Scalpitava, vicino, il cavallo che aveva proclamato per ogni dove la sua riconquistata libertà.

Arsero le pire. Mentre si esaurivano gli ultimi fuochi, cadde dal cielo una pioggia sottile, lacrime di madri.

Dall'alto delle rovine, l'ombra dell'antica sovrana fece volare una colomba bianca. Dall'uccello caddero stille di sangue.

Venne l'alba, la cerimonia ebbe fine e le dune di sabbia riconquistarono la città diroccata.