Lamenti e speranze della femmina meccanica

da "Il messia meccanico"


Stringesti forte forte una molla e io alzai la testa e il collo. Poi, senza gentilezza, con durezza di gesti e con impazienza, desti un altro giro. Premesti un tasto e io ti guardai, mio padrone.

Mi dicesti: “Abbassa le testa. Non era questo il comando che ti era stato impartito. A chi è stata fatta solo per il mio diletto non è lecito guardarmi, da pari a pari, negli occhi. Nell'alto dei cieli il supremo inventore volle gratificarmi della sua benevolenza e ti creò per ristorarmi delle mie fatiche e delle mie sofferenze.”

Ci fu un rumore strano, uno stridio di fili e rotelle, e una fitta attraversò il mio povero cuore di ferro.

Mi comandasti di seguirti e andammo nelle affollate vie della città. Mi ordinasti di coprirmi con lunghi veli. Io non capii. Non dà forse gioia al proprietario mostrare ciò che egli possiede? Se io sono il dono di qualcuno per te, non costituisce offesa per il tuo generoso benefattore mostrare interamente agli altri ciò che hai ricevuto?

Poi tornammo a casa. Messa in un angolo buio e nascosto della casa provai strane sensazioni. Certo vi era stato un errore di fabbricazione, perché la materia, certo vilissima, di cui era costituito il centro da dove partivano i miei pensieri, elaborò idee, creò reminiscenze e memorie, sconvenienti per una macchina alla quale si addice solo la sottomissione.

Ebbi visioni, balzate da un passato remoto. E certo ciò era al di là di quanto è concesso e, conseguentemente, codificato nella mia struttura costruttiva. Tutti i miei meccanismi, infatti, sussultarono.

Mi interrogai su chi fosse il mio creatore. Ed ebbi la nebbiosa immagine di materia informe baciata dai meravigliosi raggi della luce del sole. 

“No, no” mi dissi, era impossibile che da lì nascesse ciò che mi teneva e mi tiene prigioniera. Altra era certamente la fonte delle regole spietate, violente, mummificate, immutabili, fissate nella pietra, insensibili ai cambiamenti, alle riflessioni, ai nuovi apporti intellettuali. E vidi nella foschia uomini esaltati che, agendo in epoche remote, si nascondevano dietro un terribile e breve nome collettivo.

Chi, giovandosi di antiche norme, mi teneva avvinta al suo volere, il mio padrone, si accorse della luce della conoscenza, che lampeggiava nei miei occhi, di certi miei gesti trattenuti, a scatti. Egli vide in ciò i segni, i pericoli di una ribellione imminente e mille volte mi frustò. Lo scudiscio penetrò e lacerò il mio delicato rivestimento esterno, mentre dentro di me si diffusero tetri rimbombi e lamentosi e cupi rumori di metallo.

Dopo aver atteso ai miei compiti sacralmente enunciati nella notte dei tempi, venni riposta in buio vano, ogni mio movimento fu bloccato da una leva.

Si accumulò la polvere su di me, una polvere opprimente che veniva dal passato.

Ma anche se mi è proibito, pur se immobile, io penso e ho sentimenti e speranze.

Con gli occhi chiusi ho ancora una visione, ma non malvagia. Nel sogno avanza una bellissima figura, che non scende dal cielo, ma dal pensiero di uomini liberi e onesti. Essa soffia lievemente, con delicatezza, come un vento gentile nell'aria, e spazza via le nubi nere del fanatismo.

Essa ha un nome: Ragione. 

E io sento che le mie catene di schiava si spezzano. Mi libero dal ferro e tutto in me si fa finalmente carne e sangue.