Nemo

da "Il messia meccanico"


Un tempo, quello era stato un giardino, circondato sui tre lati da alti edifici. L'ultima porzione era libera da ingombri, perché scendeva a strapiombo. Da lì era possibile godere una visione magnifica. Il mare si insinuava in un golfo splendido e accoglieva due isole. Nel giardino, chissà quanto tempo prima (migliaia di anni, centinaia di migliaia di anni?), c'era stato un monumento. Esso si era sviluppato in lunghezza, a giudicare dalla base di pietra corrosa. La parte in bronzo era svanita, consumata dal tempo e dalle intemperie. La base era ancora sufficientemente comoda perché un gatto potesse distendersi su di essa e godere del sole nelle belle giornate. 

Un gatto grigio era l'unico abitante di quel luogo e di un'estensione di terra, intorno. Non c'erano più gli orribili palazzi di un tempo. Ripiegati su se stessi, crollati inesorabilmente, di essi non vi era più traccia. Alberi, piante e fiori facevano ora da padroni. Un bosco immenso era al posto di quella che era stata una città. L'esplosione della natura lussureggiante era quello che dal mare, avrebbero potuto ammirare balene e delfini che popolavano il golfo.

Un'unica presenza inquietante: un grande vulcano che si ergeva in lontananza. Nel tempo (in quelle migliaia o centinaia di migliaia di anni, chissà?) il gigante si era ridestato più volte. Aveva distrutto le cose degli uomini. Aveva aiutato gli alberi, le piante e i fiori a riprendere possesso del territorio. Poi, di tanto in tanto, aveva infierito sul quel mondo verde, ma quest'ultimo, ogni volta, aveva ripreso il suo posto, più bello di prima, perché l'intemperante montagna distruggeva ma anche fertilizzava.

Il gatto, in qualche modo, era legato a quello che rimaneva di un monumento, ne era l'inconsapevole Custode.

Il Custode amava crogiolarsi al sole, odorare la fresca brezza marina e, poi, trafficare con un fiore meraviglioso che era davanti all'antico piedistallo. Era un fiore profumatissimo, ma di un odore che non dispiaceva a un gatto, ed aveva una foggia strana. Partendo da una forma quasi quadrata si slanciava in cinque estremità vellutate. Il Custode si contorceva tutto per disporre il suo corpo a contatto con il fiore, e con movimenti leggeri, per non rovinarlo, lo passava sul pelo. Forse c'era qualcosa di ancestrale, di ricerca di qualcosa di perduto in quei movimenti, un ritorno inconsapevole ad antiche carezze.

Non c'era più la mano.

All'improvviso si erano visti eccezionali bagliori nel cielo, accecanti luminosità, e, poi, tempeste, onde gigantesche, nubi impenetrabili, piogge ininterrotte. Vi erano state foreste interamente distrutte, terre allagate, nuove isole, montagne precipitate nel mare, milioni di animali morti. Ma, poi, era tornato il sereno. I boschi erano rinati. Gli animali si erano moltiplicati. Solamente gli uomini erano scomparsi. Nella giungla del Congo, è vero, i leopardi si erano imbattuti in qualcosa di strano. Ma si trattava di nient'altro che di una scimmia albina spelacchiata, e, quindi, di un ingannevole caso di criptozoologia.

Il tempo degli uomini era, dunque, definitivamente tramontato, né più né meno di quello dei dinosauri. Sarebbe vano interrogarsi sulle cause. Forse una ragione sola, forse una serie di circostanze concomitanti. Ma a una teoria più o meno convincente se ne potrebbe contrapporre una ugualmente persuasiva. Così, all'infinito, senza andare da nessuna parte.

L'unico fatto certo era che il mondo era ancora al suo posto. La scomparsa degli uomini era stata improvvisa, ma non vi era stato da nessuna parte, in nessuna valle, un qualche forma di assembramento di uomini, un gigantesco tribunale all'aperto. 

Nessun giudizio, dunque, ma solo una constatazione, nuda e cruda. 

Semplicemente, c'era stato solo un nuovo inizio.

Il tempo, le migliaia, le centinaia di migliaia di anni avevano cancellato ogni traccia della presenza degli uomini. Capitava, però, di tanto in tanto, che qualche animale, scavando con le zampe, trovasse qualcosa che era appartenuto agli uomini e che l'animale abbandonava subito dopo averne constatato l'inutilità. 

C'erano il lupo, l'agnello, la tigre, il capretto e il leone. Ma il lupo non dimorava presso l’agnello e la tigre non si accovacciava accanto al capretto, il vitello e il leone non pascolavano insieme.

Su tutto questo il Custode non si interrogava. Né si chiedeva cosa fosse stato un tempo quella pietra sulla quale gli piaceva sonnecchiare, stiracchiarsi, farsi le pulizie. Ma cosa gli sarebbe poi importato sapere che passava i suoi giorni sui resti di un monumento che rappresentava in bronzo un uomo disteso con sopra un gatto che gli leccava la barba? Eppure, con quel gesto impresso nel metallo, un felino riconosceva nell'uomo un suo compagno e gli attribuiva una grande onorificenza, il titolo di gatto ad honorem.

L'uomo ed il gatto non erano personaggi di fantasia, protagonisti di una favola, ma erano realmente esistiti. Avevano avuto dei nomi: Ulisse l'uomo e Nemo il gatto. 

Ulisse aveva fatto più volte naufragio nella vita, era circondato da gente cattiva, ma era troppo buono e troppo mite per poter prendere un arco. Il dolcissimo Nemo aveva avuto una casa, false carezze, ma era stato buttato fuori, in strada. Chi lo ospitava aveva scoperto che il felino aveva una malattia infettiva. Questa era trasmissibile solo tra esseri della stessa specie, ma i  suoi ex amici umani avevano decretato senza pietà: “Non si sa mai!”

Per Nemo era stata una tragedia. Non per una scodella di cibo, perché qualcosa da mangiare, alla fine, si riesce sempre a trovare. Ma il calore dell'affetto come fai a recuperarlo, specialmente dopo che hai scoperto che non sei mai stato veramente amato? Nemo aveva un disperato bisogno di un amico, necessità di un contatto profondo anche fisico, di stare attaccato a lui, di addormentarsi tra le sue braccia. L'abbandono era stato un grandissimo trauma. Così, se ne andava, anche lui, tra la gente cattiva. Disperato, miagolava incessantemente. Voleva certo dire: “Cerco un amico.” 

Il suo istinto non lo aveva tradito e aveva, alla fine, trovato l'ago nel pagliaio. Aveva incontrato Ulisse e non se ne era più staccato. Lo seguiva, non si allontanava dalla porta d'ingresso della casa dell'uomo. Lì sotto miagolava giorno e notte. L'uomo, che pure non aveva mai goduto della compagnia di un felino, si decise ad accogliere il gatto. Alla fine, aveva capito che anche nella sua vita mancava qualcosa, l'affetto di un vero amico. Quando Ulisse si distendeva sul letto a pancia all'aria a pensare, Nemo gli saltava sopra e gli leccava la barba e i capelli, per dirgli: “Tu mi sei compagno. Anche tu sei un gatto.”

Era stato sposato Ulisse, ma ora era solo. Conduceva una vita molto ritirata. Buona parte della mattinata dormiva, poi leggeva tanto. La sera e per tutta la notte svolgeva il suo lavoro di guardiano nel museo archeologico nazionale. 

Nemo aveva finito con l'adattarsi alle sue abitudini. Ora erano due i guardiani notturni nel museo. E, mentre Nemo miagolava alle statue degli antichi dei, Ulisse trascorreva la notte passando di simulacro in simulacro, raccontando ininterrottamente delle storie. Come aveva spiegato al gatto, gli dei non erano null'altro che purissime forme celesti, lontane e vicine agli uomini e pronte ad accogliere le loro storie. E il compito degli uomini, che Ulisse svolgeva in maniera impareggiabile, era appunto raccontare incessantemente agli dei le storie che li riguardavano. Non si doveva mai stancare Ulisse, il flusso delle sue parole doveva essere inarrestabile. Perché, diceva Ulisse, è un guaio, se non un'autentica tragedia per gli uomini, quando sono gli dei a voler essi stessi raccontare le loro storie agli uomini.

Ulisse, però, aveva voluto strafare. Volendo parlare nelle orecchie degli dei, perché questi ben lo intendessero, aveva cominciato ad usare una scala, vecchia e malferma. Una notte, infervorandosi perché il suo racconto lo richiedeva, era caduto, trascinando a terra un braccio di Nettuno.

Il danno procurato alla statua non poteva passare inosservato e senza conseguenze. 

Un'inchiesta interna, fatta anche di appostamenti notturni, portò a galla le attività affabulatrici di Ulisse. Il comportamento di Nemo non fu ritenuto censurabile, ma quello dell'umano non poteva non essere sanzionato. Il candore, la bontà, la dolcezza di Ulisse rendevano di solito tollerabili le sue ben conosciute stramberie e valsero anche, in qualche modo, a salvarlo dalla difficilissima situazione nella quale si era cacciato.

Ulisse fu sollevato dal suo incarico di improbabile guardiano notturno, ma non fu brutalmente licenziato, senza che potesse contare più su alcun reddito. Fu messo in pensione anticipata, a causa di una gravissima forma di esaurimento nervoso. La soluzione fu caldeggiata con molto vigore dal direttore del museo, che, in fondo, voleva bene al suo ex dipendente.

Ma Ulisse non godette a lungo dei frutti della pensione. Le condizioni di Nemo erano già cominciate a peggiorare sempre più, giorno dopo giorno, quando anche Ulisse aveva scoperto i sintomi di un'inesorabile malattia degli uomini, pur essa mortale.

Ulisse aveva ancora la forza di accompagnare il gatto dal veterinario. Ma Nemo si doleva di non poter, a sua volta, essere presente quando l'amico andava anche lui a farsi visitare. Ciò era severamente proibito dai regolamenti dell'ospedale.

Non si fecero torto i due amici. Morirono quasi insieme, a poche ore di distanza l'uno dall'altro.
Il direttore del museo fu un attento esecutore testamentario.

Come Ulisse aveva disposto, il suo corpo e quello di Nemo vennero cremati e raccolti in un'unica urna, insieme alla polvere di una pietra caduta dal cielo e ai petali di una rosa.

Di soldi ce ne erano a sufficienza, perché Ulisse aveva speso sempre poco per sé e molto risparmiato. Così il direttore del museo poté esaudire un altro desiderio del guardiano. E nel giardino della casa di Ulisse, proprio di fronte al mare, fu possibile disporre, su un piedistallo di marmo la statua metallica di un uomo disteso e, sopra di lui, l'effigie di un gatto. Il felino stava accoccolato sulla pancia dell'uomo e la sua testa era protesa a leccargli la barba.

Sul terreno, ai piedi della statua, come Ulisse aveva voluto, erano state sparse le ceneri sue e di Nemo, la polvere di una pietra caduta dal cielo e i petali di una rosa. Un uomo e un gatto continuavano a farsi compagnia e chiedevano all'Universo di partecipare e dare testimonianza di un'amicizia, di un affetto perenne.

Di lì a poco gli uomini erano scomparsi, ma era nato, sotto il monumento, il fiore meraviglioso.

Generazioni e generazioni di gatti avevano vissuto ed erano scomparse. Il metallo della statua si era corroso e, alla fine, il Custode aveva eletto il piedistallo a suo luogo preferito.

Era una limpida notte stellata. Gli occhi del Custode sembravano scrutare il cielo e fissarsi su un punto lontanissimo nell'infinito.

Sopra quel punto, perso nell'universo, uscendo dalle caverne di una gestazione durata milioni di anni, degli esseri erano entrati in un mondo magico che permetteva di mettere in relazione le cose e anche di farle smarrire nei meandri della fantasia.

Quella notte gli esseri fissavano il cielo e, forse, avevano guardato in direzione di quel lontanissimo punto dove era il Custode. Di certo, guardavano le stelle e come il disporsi di queste componeva l'aspetto di possenti creature celesti.

Riflettevano gli esseri pervenuti alla luce della fantasia e si predisponevano a narrare alle creature celesti bellissime storie che li riguardavano.

Nulla era finito, dunque. Tutto era ancora una volta ricominciato.