Le confessioni di un bibliofilo

da "Il messia meccanico"


Giunto al termine della mia breve, ma intensa, vita sento la necessità di trasmettere alle giovani generazioni tutto quello che ho appreso nel mio peregrinare per il mondo. Mi sono infilato, non visto, in treni, aerei, automobili, camion, navi di qualunque stazza, pur di adempiere alla missione che mi ero dato. Ho sfidato anche le più terribili avversità meteorologiche, l'odio degli uomini, che si manifestava implacabilmente e frequentemente in radicali e venefiche disinfestazioni, per portare a termine i miei compiti culturali.

È bene che precisi subito che appartengo ad una cerchia ristretta, quella dei bibliofili. Noi amiamo i libri, ci nutriamo del sapere. Ciascuno di noi ha però, come dire, una precisa specializzazione. C'è chi si interessa di narrativa, chi di poesia, altri di scienza o di tecnica. Nessuna disciplina, dall'astronomia alla fisica, o campo di espressione, dal teatro alle canzoni popolari, è tralasciato.

Io mi occupo di materie ostiche, difficili e che sono incentrate sulle religioni, sui loro principi e sulle loro storie. Trattando questa delicata branca non posso, poi, ignorare la psicologia, la psichiatria e, soprattutto, l'antropologia criminale.

Comunque, fondamentalmente, mi nutro la parola dell'Unico, di qualunque religione monoteista, purché sia una parola scritta. Non perché, come dicevano gli antichi: verba volant, ma perché solo la parola scritta ha sostanza. 

Dicevo che sono stato un viaggiatore instancabile. Ebbene, sono stato in Arabia, in Palestina, in Medio Oriente, lì sono sgusciato in caverne, in grotte abbandonate dagli uomini da centinaia di anni, sono penetrato in anfore sotterrate da tempo incalcolabile. In quei luoghi e in quegli anfratti sono venuto in goloso contatto con preziosi manoscritti stesi su pelli di montone, su papiri, perfettamente conservati da un clima riarso e secco. Ho esplorato Roma e i suoi archivi più segreti. Mi sono accostato con voluttà a manoscritti, a preziosi incunaboli. Non ho tralasciato, poi, moderne biblioteche colme di libri di esegeti, di storici, di studiosi della psiche umana.

Al termine di ricerche instancabili di una cosa sono certo: nel corso dei secoli l'appetitosa parola dell'Unico, non è stata mai immutabile, qualunque fosse la religione del libro della quale era verità. Essa, nel corso degli anni, dei decenni e dei secoli è inesorabilmente cambiata, fino a fermarsi a un testo definitivo nella veste, ma non nelle interpretazioni. Decine di cuochi hanno cucinato la parola, hanno aggiunto spezie, eliminato ingredienti, allungato o accorciato i tempi di cottura per adattarli alle necessità dei tempi nuovi, che presentavano sulla scena del mondo non dico nuovi buongustai, ma nuovi ingoiatori dai gusti semplicissimi.

Lo so, è sacrilego che io mi esprima in termini culinari su una materia tanto alta, ma ciò è nella mia natura. Ho prevalentemente mezzi attinenti alla masticazione per poter penetrare nell'intima essenza dei libri.

Ebbene sì, lo confesso: sono un topo. Sono un divoratore di libri sacri, mentre gli uomini devoti sono invece divorati dai santi testi.

Gli uomini hanno solo una pallida conoscenza di noi topi, delle nostre potenzialità intellettuali e delle capacità di ampliarle con la quotidiana, intima consultazione dei libri. Non ci è dato però di leggerli e siamo costretti a mangiarli. 

La conoscenza si appalesa a noi per misteriose vie digestive ed è subito assorbita dal cervello.
Io personalmente attraverso la conoscenza sono pervenuto all'illuminazione. 

Do conto qui del mio abbandono delle tenebre.

Mi piace innanzitutto ricordare che anche quando noi topi scaliamo pareti dritte, la visione del cielo ha per noi un'importanza quasi nulla. L'essenziale è arrivare, per esempio, nella cucina di una casa e sfamarsi adeguatamente con quello che lì si trova. Gli uomini, invece, sembrano nutrire ben diverso interesse per il cielo. L'osservano, lo fissano, lo scrutano, ci riflettono su e, se non sono astronomi o solo interessati a sapere se piove, arrivano a delle conclusioni completamente errate.

Ho anche capito l'intimo significato della teologia, ho sviluppato un efficace ragionamento che vado ripetendo ai miei giovani ed attenti allievi, che prenderanno il mio posto e continueranno il mio lavoro culturale, posto che riescano ancora trovare qualcosa da mangiare, perché la mia attività intellettuale è stata intensissima.

Ai miei discepoli dico in prima battuta: “Sapete cos'è la teologia?” Sui loro volti leggo sempre grande avidità di sapere. La soddisfo subito, in una forma che non definirei proprio di parabola, ma, forse, di apologo.

Ripeto, la mia attività volta alla conoscenza ha più fasi che si concludono, una volta reperita la materia prima, in un'attività masticatoria e, poi, in una digestiva. Ma ciò non conclude il processo, perché se è vero, almeno per noi topi, che dall'elaborazione dei succhi si perviene alla fissazione nel cervello di preziose informazioni è anche vero che si producono degli scarti, che in qualche modo devono essere eliminati.

Ed è proprio sull'eliminazione di questi scarti, formati a partire da testi ritenuti sacri, che chiamo idealmente ad esprimersi la teologia per svelarne gli intimi meccanismi di azione.

La questione è se un libro sacro rimane tale anche dopo che è transitato nello stomaco di un topo. Non si vuole qui introdurre un elemento mondano, secolare, ma giova ricordare che i chicchi di caffè ingeriti dal grazioso luwak (animaletto delle Filippine e dell'Indonesia dal nome scientifico Paradoxurus Hermaphroditus) rimangono sempre caffè, permettendo anzi la preparazione di una preziosissima, gustosissima e costosissima bevanda. A voler stabilire un parallelo non avventuroso, il libro sacro, quindi, dopo il trattamento di cui si è parlato, diventerebbe più sacro e prezioso. La Parola, quella con la p maiuscola, non muterebbe, secondo questa posizione, di un ette anche se toccasse le mucose più nascoste di un miserabile come me. La Parola, con la sua smisurata potenza, è in grado di illuminare anche i meandri più nascosti e tormentati dalle lordure. E sarebbe il topo a giovarsi dell'intimo percorso del verbo ascendendo ipso facto alle vette della santità. Questa potrebbe essere la posizione di una parte dei religiosi più attaccati ai beni terreni, abituati a mischiare sacro e profano e a bere nei recessi delle loro sedi più opulente, il caffè del luwak e, diciamolo pure, meno attenta alle ragioni della spiritualità.

Certamente, poi, le parti religiose più intransigenti, appellandosi a una più letterale interpretazione proprio dei testi ingeriti, riterrebbe la digestione con espulsione dei residui una tipica operazione diabolica, assolutamente non in grado di restituire materia venerabile.
Si creerebbero, conseguentemente, due fazioni in lotta implacabile tra loro: gli Escrementiziali e gli Antiescrementiziali.

Violente le polemiche, appoggiate a una duplice ed opposta interpretazione del testo sacro. Di qui il fiorire di intere biblioteche sull'argomento, il propagarsi di sanguinose divisioni, di scismi e anche il moltiplicarsi di sette originate in seno ai due schieramenti maggiori.

Perché bisogna bene interpretare i testi, scegliendo le parole e i versetti adatti, trovare riscontri nelle opere degli eruditi. E si arriverebbe a spaccare il capello in quattro. Di qui gli Escrementiziali candidi, che riconoscerebbero la santità solo dei residui immacolati e gli Antiescrementiziali neri e rossi che riconoscerebbero nelle deiezioni di quei colori l'opera del diavolo.

Va da sé che qualcuno, o, meglio, molti potrebbero farsi veramente male, perché in queste complicate questioni teologiche dalle parole si passa istantaneamente ai fatti.
Alla fine, la questione sarebbe, però, risolta, lasciando inguaribili ferite nelle anime e nei corpi, con concili, encicliche, fatwe varie e responsi di rabbini. E subito si presenterebbe un'altra e sottilissima questione teologica, giusto per far divertire le caste sacerdotali e, contemporaneamente, per far soffrire l'umanità.

Ai miei dilettissimi allievi non manco mai, poi, di sottolineare la capitale importanza dell'inscindibile correlazione tra teologia e antropologia criminale, come ho potuto appurare da decine e decine di volumi. E qui la digestione di un povero topo come, che pure è stato sempre di bocca buona, come tutti i miei fratelli, si è rivelata davvero difficile, se non impossibile. Disturbi peristaltici, occlusione intestinale paralitica, meteorismo, avvelenamenti ed altre traversie di salute ho dovuto affrontare e patire dopo l'ingestione dei libri che tratteggiavano con dovizia di particolari la storia delle tre grandi religioni cosiddette rivelate. Per non parlare dei disturbi psicosomatici! Mi capitava, assimilando nozioni storiche, di immedesimarmi nei perseguitati delle religioni. Se ero una donna avvertivo la pochezza e l'infamia della mia posizione, mi vergognavo delle mie nudità e cercavo qualcosa che potesse coprire integralmente la coda, come noto arma di sfrontata seduzione. Se ero un eretico, ma non so rispetto a che, o semplicemente appartenente a una religione avversaria, avevo vampate di calore e mi sentivo come avvolto dalle fiamme di un rogo, o avvertivo di trovarmi sulle soglie di un impalamento, di uno squartamento, di una decapitazione, e a volte mi sembrava che tenaglie arroventate mi staccassero il mio bel nasino o qualcosa d'altro. Quante pie sensazioni! L'effetto più sorprendente fu quando, dopo aver mangiato un testo relativo alle torture effettuate per misericordiosi motivi, perché si voleva salvare la mia anima, sentii crescere e allungarsi le mie zampe. E sì, la santa tortura della corda poteva condurre a questi effetti! 

Come poteva, inoltre, resistere il mio debole fegato di topino alle vicende che assimilavo?
Un mio confratello, appassionato studioso e instancabile divoratore di libri di medicina e veterinaria, mi ha ripetutamente ammonito a riguardare la mia salute. Fortuna che ho trovato un'erbetta, stavo per dire stupefacente, insomma efficacissima, per curare le mie patologie epatiche, vera e propria malattia professionale. 

I miei guai di salute sono stati comunque infiniti. Perché, quando ho dovuto mettere bocca nelle relazioni tra religione e psichiatria, il mio povero pancino si è gonfiato in maniera abnorme. La pelle era tesa come quelle di un tamburo e temevo di scoppiare da un momento all'altro. 

Ancora una volta i miei fratelli e sorelle mi hanno aspramente rimproverato:
“Te le avevamo detto di stare attento alla tua alimentazione!” 

Ma io cosa potevo fare? Questo è il mio campo di studio e me lo devo sorbire fino in fondo. Devo bere l'amaro calice. Si fa per dire... Fortunati i miei colleghi che mangiano opere scientifiche. Lì è un mangiare, basato su pietanze reali, che accresce la cultura senza creare problemi di digestione e di assimilazione di informazioni velenose. Che ci posso fare io se i profeti, alla luce della migliore letteratura psichiatrica sono affetti da disturbo delirante paranoide di tipo grandioso che gonfia l'io e che inesorabilmente ha gonfiato anche il mio pancino, attraversato al suo interno dagli echi cartacei dei sobbollimenti profetici?

È tempo che io concluda questo brevissimo scritto. Lo faccio nello stesso modo con cui concludo il mio corso davanti ai miei allievi. Purtroppo il loro numero, di anno in anno, si fa sempre più esiguo. Sulla falsariga di un giornale confessionale, sono costretto ad ammettere che anche nel nostro bel mondo topesco avanza un certo laicismo sull'onda dell'avanzata scomposta della secolarizzazione. Le nostre giovani menti, ispirandosi a un montante relativismo culturale, preferiscono avere a che fare con materie più mondane e facilmente digeribili.

Dunque, meno il vanto di aver lavorato con i denti e il resto su un'opera unica. Unica nel senso che non esistevano altri esemplari. Sono l'unico depositario e scrigno del breve racconto di Algus Kiurlonis, il cui lavoro meritava certo un'universale diffusione. Cerco di rimediare alla mia fame di conoscenza riassumendo qui il testo di quel grande studioso lituano.

Algus, vissuto nella seconda metà del XVI secolo era alchimista, astrologo, filosofo, libero pensatore. Attività queste tali da assicurargli un poco radioso futuro. E fu, infatti, a un passo dal rogo purificatore, quando una sua sorprendente scoperta lo sottrasse alla tortura ed alla morte, permettendogli di concludere i suoi giorni in un “mondo parallelo”. 

Al termine di certi suoi annosi esperimenti consistenti nelle distillazione di sostanze preziosissime e celestialmente profumate, si presentò nell'alambicco della sua officina alchemica un residuo scintillante, che Kiurlonis raccolse e chiuse in due piccoli contenitori di cristallo.

All'improvviso, una forza irresistibile lo forzò, lo obbligò a stringere nelle mani i due recipienti. Quello che avvenne dopo il sapiente non seppe mai spiegare. Svenne e si trovò in un luogo misterioso, le cui caratteristiche gli suggerirono la definizione di “mondo parallelo”.

Ripresi i sensi, non ancora in possesso integrale delle sue facoltà, Algus si aggrappò a una colonna, peraltro in una posizione ideale, data la sua angolatura, per poter osservare, non visti, chi, procedendo dall'unica stradina di quel luogo, arrivava in prossimità di un grande portone, che consentiva l'ingresso in un'enorme costruzione.

Stropicciandosi gli occhi, non solo per il torpore che ancora in parte quasi lo paralizzava, ma anche per naturale reazione a una visione strabiliante in quel “mondo parallelo”, Kiurlonis vide avanzare una strana processione. Era preceduta da un personaggio impettito dall'aria arrogante in abiti appropriati alle sua funzione, che recava sulla testa uno zucchetto e che reggeva tra le mani sollevate un libro finemente rilegato. Seguivano dignitari anch'essi avvolti in degne vesti. Il corteo arrivò in prossimità del portone. Un personaggio, certo di rango inferiore, bussò con un pesante bastone alla porta, con un fare insolente e producendo un fracasso che faceva intendere che chi doveva trovarsi all'interno era di certo di uno stato subordinato rispetto a quelli che erano parte del corteo.

Il portone finalmente si aprì, ma Algus non riuscì a capire se questo avvenne per l'opera di chi era dentro o per i violenti colpi del bastone.

Solo l'uomo con il libro entrò. Il portone era di legno massiccio, ma Kiurlonis e i dignitari udirono distintamente una voce urlante, che all'interno del locale sembrava dare ordini secchi. Algus non riuscì ad afferrare tutto, ma capì che qualcuno stava dando ordini ad un altro su variazioni che si rendevano necessarie a un certo libro e su nuove interpretazioni che era necessario dare ad alcune sue parti.

Ci fu silenzio. L'uomo con lo zucchetto uscì trionfante e, alla testa dei suoi, e si allontanò percorrendo la stradina.

Passò del tempo, Kiurlonis si domandava ancora il senso di quello che aveva visto, quando un altro corteo si approssimò. Questa volta le vesti erano diverse e preziosissime, il primo della fila aveva sul capo una tiara, gli altri dignitari avevano sulla testa un copricapo alto e diviso nella sommità in due punte, con nastri che cadevano sulla nuca. L'uomo con la tiara, tronfio e impettito, reggeva in alto un libro tempestato dalle gemme più preziose. Algus assistette ad una replica precisa di quello che aveva già visto ed udito: violenti colpi di un bastone sul portone, questo che si apriva non si sa come, l'ingresso dell'uomo con il libro, urla, invettive e ordini su nuovi contenuti da inserire qui e là in un volume e su nuove interpretazioni da dare a certe parti del testo, uscita del capo trionfante e allontanamento dell'intera austera combriccola.

Passò ancora altro tempo. Si ripetette una terza volta, con uguali particolari, la scena alla quale Algus era ormai abituato. Solo gli abiti erano diversi, lunghe palandrane di fini tessuti e copricapi circolari. Lunghe barbe, inoltre, adornavano i visi dei partecipanti a quella processione.

Colpi di bastone, apertura della porta, entrata del capo con il libro sollevato, urla, grida, comandi per i motivi già visti.

Quando anche l'ultimo corteo scomparve Algus Kiurlonis, con l'esattezza del sapiente, calcolò che assolutamente non ce ne sarebbero stati altri.

Una domanda lo assalì, ma chi era dentro la costruzione e perché era stato sottoposto a quelle mortificazioni? Questa era una legittima curiosità, ma vi era anche il suo impulso di uomo retto e giusto che gli imponeva di esprimere la sua solidarietà e di portare il suo conforto a chi sicuramente era stato oltraggiato.

Si diresse verso la porta, bussò con le nocche leggermente, con estrema educazione, aspettò a lungo ma non ricevette alcuna risposta. Si risolse alla fine, non senza esitazione, ad aprire la porta. Lo fece con gentilezza, molto ma molto lentamente.

Quando la porta fu completamente spalancata, superò di un passo la soglia, gettò lo sguardo in ogni direzione, ma non trovò nessuno.