Universale Remedium

XI


Tramma pensò agli avvenimenti recenti. A quella singolare successione, che aveva visto, prima, la morte, solo annunciata, di Petruchio e, poi, quella, di cui era stato partecipe, di Celia. C’era un filo tra i due eventi? Avrebbe dovuto procedere a qualche interrogatorio. A mettere sotto torchio gli ospiti della Red Pompeian House. Ma non aveva veste per costringere quella strana gente a parlare. Era sicuro che nessuno avrebbe collaborato. Aveva tentato con Cedric e Pat. Non aveva conseguito alcun utile risultato. I due lo avevano ascoltato ed erano restati in silenzio, guardandolo con la solita espressione. «Sono effettivamente idioti, o fingono di esserlo?»

Alla fine si risolse a lanciare uno S.O.S. Si complimentò con se stesso per il partito che aveva preso e si sedette contento sulla sella curule. Controllò che sul tavolo di marmo ci fosse tutto l’occorrente. Un bianco rotolo per scrivere, una penna di uccello e l'atramentum, l’inchiostro. Scriveva alacremente ed, ogni tanto, fissava il tappeto di gesso che era lì, di fronte a lui. «Caro Mike» aveva iniziato. Solo l’agente Mike, suo antico collaboratore a New new Scotland Yard lo avrebbe potuto aiutare. Tramma riepilogò alcuni fatti essenziali ed indicò quali erano i buchi vuoti, le cose che non conosceva su avvenimenti e persone. Quando ebbe finito, arrotolò il lungo foglio e ne fece un pacchetto. Avrebbe, poi, studiato il modo per farlo recapitare all'agente.

Il problema era di vedere quando il caro ragazzo lentigginoso avrebbe risposto. Quello che Tramma aveva richiesto presupponeva un mucchio di lavoro, tra indagini e ricerche di archivio. Per non parlare, poi, della fatica, di cui certamente Mike si sarebbe lamentato, per leggere la lettera di Tramma e per dare ad essa una risposta. Conosce-va, però, il giovanotto indolente. Avrebbe risposto. Ma quando?

Si era fatto molto tardi. Tramma prese le bottiglie da sotto il lectus lucubratorius e le posò fuori della porta. Sperava che, anche dopo la scomparsa di Celia, la fino ad allora solerte lattaia avrebbe sostituito i vuoti con recipienti di vetro, pieni della sua bevanda preferita.

Ormai, con la morte della signora Celia Selfridge, che aveva regnato, con inflessibile determinazione, sulla Pompei vecchia e su quella nuova, che si riduceva alla pensione, era subentrato un periodo di pericolosa anarchia. Forse, per forza di inerzia, Cedric avrebbe continuato ad assicurare un minimo di ordine. Tramma, però, era sicuro che, senza la guida intelligente di Celia, il gigante poco avrebbe potuto. Era sconsigliabile uscire di notte. Ma la presenza rassicurante di Platone, fuori della porta, lo convinse a tentare l’avventura. Aveva bisogno di camminare un po’. Lasciò scegliere la strada al caprone. L’animale si inoltrò sicuro per le strade, come se avesse predeterminato la meta. Nella totale oscurità, l’animale e l’uomo si trovarono, infine, nel Teatro Grande. Platone salì sulla scena. Tramma lo assecondò. Era stanco e si sedette su una pietra, che era ad un’estremità della scena. L’animale si accoccolò ai suoi piedi, premendo contro l’amico, certamente animato della volontà di riscaldarlo con il tepore dei suo corpo. Tramma cominciò ad alternare momenti di coscienza a lunghe pause segnate da un distacco dalla realtà presente.

Passò del tempo. All’improvviso, un faro fendette l’oscurità ed andò ad illuminare l’orchestra. Al centro del cerchio luminoso apparve Celia Selfridge, per nulla infastidita dalla luce intensa. La voce della Selfridge risuonò forte e chiara nel Teatro: «Tutti si aspettavano che il trasferimento in massa, successivo alla grande glaciazione, segnasse anche il trasloco di Petruchio. Ciò che non avvenne». Il faro si spense. Un altro globo di luce apparve sulla media cavea e si proiettò sulla scena. Petruchio non recitava. Indossava un vestito normale. Il suo tono era calmo, pacato. «Non mi muovo. L’arte mia è universale. Molti di voi non hanno mai bene inteso questo concetto». Parlava, evidentemente, a quelli che avevano popolato New London prima degli inglesi «Che andiate via, a me poco importa. Verrà altra gente. È sempre vita che si svolge. L’importante, per me, è che l’osservatorio, il mio osservatorio materiale, non cambi. Perciò, mi basta che rimangano le pietre, le case. Sono messe male. Lo so. Ma sono i miei punti di riferimento. Questa è l’unica cosa importante per un vecchio come me».

Petruchio scomparve e ritornò Celia. Non era pungente quella sera. Si limitava ad una cronaca distaccata degli avvenimenti che avevano interessato la vita dell’attore.

«Ormai, l’Alta Corte aveva accettato la tesi di Petruchio intorno alla sua diretta discendenza da Oliver Cromwell. L’attore, però, era stato cautamente avvertito, attraverso vie traverse, che non facesse uso ed abuso del titolo di Lord Protettore. Suoi eventuali tentativi di deporre la legittima sovrana sarebbero stati vivamente deprecati e contrastati con molto vigore. A Corte non era stata molto gradita la notizia della sua permanenza a New London, né la sua dichiarazione di aver abbracciato le tesi religiose del puritanesimo. Petruchio si mise per un po’ in disparte. Rimase alla finestra per osservare i nuovi venuti. Evidentemente, trovò il nuovo materiale umano molto interessante. Da quelle nuove esperienze ricevette forza vitale. Ebbe tanta voglia di lavorare. Le sue prestazioni artistiche furono, inoltre, vivamente sollecitate. Richieste in tal senso non arrivarono solo dagli sparuti gruppi repubblicani. C’erano anche delle ragioni climatiche. Le intemperanze meteorologiche avevano sterminato il fior fiore degli attori shakespeariani, dimostratisi in massa sensibili al freddo. Fu chiesto a Petruchio di sostituirli. L’attore volle fare le cose con serietà, come era suo solito. Fondò un’apposita compagnia, in un sobborgo che era stato industriale. Riecheggiando il nome originale della località, aveva chiamato il gruppo teatrale Compagnia di St. John on Sebetus. Dove, con il nome Sebetus, si indicava un fiumiciattolo maleodorante che sfociava proprio nella località di St. John».

L’esile figura di Petruchio fu di nuovo visibile. Ora aveva qualcosa da spiegare ai nuovi inquilini della sua città, agli inglesi. «Shakespeare era un grande attore ed un grande autore. Anche io sono attore ed autore. Io ho maturato, da quando siete qui, una visione particolarissima di voi, che siete il mio mondo nuovo. Non vi aspettate, però, che la mia interpretazione del maestro inglese sia canonica, classica. Sarà una mia modesta reinvenzione. Sceglierò una tragedia».
L’intervento di Petruchio, per il momento, era concluso.

Tramma guardò automaticamente verso l’orchestra, dove trovò la narratrice, già intenta a riannodare il filo del suo discorso. Petruchio non scomparve. Era pronto sulla scena per i suoi interventi, quando le necessità della narrazione lo richiedessero.

«La sera della prima del Giulio Cesare era palpabile un’atmosfera di viva preoccupazione. Petruchio aveva preannunciato una rilettura del testo, che non si conosceva. I componenti della St. John on Sebetus erano stati vincolati al più stretto riserbo, e non rivelarono le novità che avrebbero contrassegnato la messinscena. Data l’eccezionalità dell’avvenimento, anche la regina avrebbe assistito allo spettacolo. La sovrana aveva provato sensazioni di disagio e preoccupazione quando, come era nella tradizione, prima che iniziasse la rappresentazione, Petruchio era stato ammesso alla sua presenza per la presentazione ufficiale. L’augusto personaggio aveva curato di avere, stretta intorno al collo, una corta collana, dalle spropositate maglie d’oro massiccio. Aveva, poi, confidato ad una dama di corte, verso la quale si compiaceva di dimostrare una benevolente, ma pur sempre distaccata, familiarità: 'Nonostante mi fossi premunita, portando un gioiello di protezione, intorno al collo, ho avuto lo stesso una grande paura. Questi Cromwell tagliano con gli occhi la testa dei loro sovrani'.

Finalmente, la rappresentazione ebbe inizio. Nonostante le preoccupazioni della vigilia, 

sembrava che tutto stesse per andare liscio. Non si trattava di uno spettacolo eccezionale, ma possedeva tutte le caratteristiche per poter essere definito dignitoso, pulito».

Sulla scena del Teatro Grande Petruchio faceva con la testa vistosi cenni di consenso. «Sotto l’attenta direzione di Petruchio, che, naturalmente aveva curato anche la regia, gli altri attori, gente alle prime armi con poca dimestichezza con il teatro, si erano comportati dignitosamente».

Nell'accecante luce dei due fari Tramma poté vedere sulla scena solo vaghe ombre indistinte che ruotavano intorno a Petruchio. «L’inghippo cominciò pochi minuti prima che iniziasse l’orazione funebre di Marcantonio in onore di Giulio Cesare». Tramma sentì brusii di sorpresa e di sgomento provenire dalle quinte. «Gli attori in palcoscenico si guardarono stupiti». Il faro che aveva fino ad allora illuminato Petruchio si spense. Si riaccese, subito dopo, accompagnando l’entrata dell’attore. Il gelo scese. Tra le antiche pietre si poteva percepire solo lo sfrigolio dei potenti mezzi di illuminazione. Aveva fatto il suo sconvolgente ingresso Marcantonio, impersonato dal capo della compagnia di St. John on Sebetus. Celia Selfridge ruppe l’imbarazzato silenzio, proseguendo con voce stanca e monotona. «Già la scelta di quel ruolo era stata criticata e, da qualcuno più vicino al protagonista, vivamente sconsigliata. Fisicamente, per età, Petruchio non poteva calarsi nei panni del romano. E che panni...» Sulla scena del Teatro Grande Petruchio ammiccò quasi divertito. Prese un lembo di quello che indossava e lasciò scoperto un tratto delle gracili gambe di vecchio. Aveva una lunga camicia da notte. Qualche fregio, qua e là, trasformava l’indumento in una toga. Una corona di agli sostituiva sulla testa il serto di alloro, che sarebbe stato più consono alla tradizione romana. Una pallina rossa da clown faceva diventare il naso di Petruchio-Marcantonio un’appendice simpatica, ma poco consona alla solennità del testo. Celia, dalla sua posizione nell’orchestra, ricordava: «Il critico teatrale del Times sobbalzò dalla sedia e sussurrò in un orecchio del vicino: 'Ma è una tragedia...'. 'Sì, mi pare che sia proprio così. Non è lo Shakespeare più allegro'». Celia tacque e scomparve. Un unico faro entrò in azione, quello che illuminava Petruchio. «Sono o non sono un bel pezzo di Marcantonio?». «Fu solo l’inizio». La Selfridge era tornata alla luce. «Beninteso, Petruchio aggiunse solo quella battuta. Il testo originale fu mantenuto integro. Provocatorio fu il modo di recitare dell’anziano interprete. Organizzava pause, silenzi, ammiccamenti, movimenti del volto, che screditavano il senso di quello che andava dicendo. Gli altri attori seguivano con difficoltà il capocomico ed incespicavano, sbagliavano le battute. Avrebbero volentieri abbandonato in massa il palcoscenico. Anche gli spettatori, punti sul vivo dalla dissacrazione del classico testo, che si andava compiendo, avrebbero volentieri sgomberato. Non era possibile, però, offendere in tal modo la regina. La sovrana, a sua volta, avrebbe volentieri lasciato il palco reale. Il gesto non era contemplato dal protocollo. A suo agio, restava in campo il solo Petruchio».

Sulla scena un’esile figura apriva e chiudeva la bocca, mimava, si agitava ed arrivava quasi ai movimenti inconsulti ed agli eccessi della marionetta disarticolata. «L’attore avvertiva, con il suo finissimo fiuto di vecchio uomo di teatro, l’atmosfera di tempesta che si stava addensando e ci dava dentro senza pietà. Sempre senza variare una sola battuta del testo, ne modulava a suo piacimento il senso. Non si è mai capito cosa volesse dire con quella buffonata. I giornali del giorno successivo furono, infatti, privi, su sollecitazione del Primo Ministro, delle cronache dell’avvenimento teatrale. Secondo la cameriera del critico teatrale del Times, che aveva raccolto le indiscrezioni del suo datore di lavoro, il discorso di Petruchio era chiaro. Bruto, Cassio e gli altri congiurati erano, è vero, una massa di farabutti traditori. Il popolo di Roma, però, non doveva aspettarsi che Marcantonio fosse, per moralità e coerenza politica, diverso da Bruto e dai suoi amici. Marcantonio parlava anche lui per brama di potere. Non gli stavano certo a cuore gli interessi della gente comune. Giulio Cesare era stato anche lui, con rispetto parlando, un grande farabutto, non da meno degli altri. Il fatto che fosse stato ammazzato non significava proprio niente. L’assassinio poteva esser visto solo come un regolamento interno di conti. In realtà, tutti insieme: Bruto, Cassio, Marcantonio, Cesare e Ottaviano partecipavano ad una sola congiura. Quella tramata alle spalle e contro il popolo. Non so quanto possa essere attendibile questa interpretazione della lettura petruchiana del Giulio Cesare. La cameriera, che l’aveva messa in giro, fu, infatti, licenziata dal critico teatrale del Times. Il giornalista si rifiutò più volte, successivamente, di fornire buone informazioni sulla ex domestica». Era risuonata nel Teatro Grande l’ultima battuta di Ottaviano, conclusiva della tragedia. Tramma sentì chiaramente una serie di tonfi, sulla scena, provocati da attori che impersonavano ruoli secondari e che cadevano a corpo morto, senza coscienza, a terra.

«Nel palco reale correvano commenti di fuoco: ‘In definitiva, questo nuovo Cromwell è decisamente più pernicioso del suo antenato. Il vero Lord Protettore non si sarebbe mai sognato di ammazzare William Shakespeare in persona’. E fu la constatazione più benevola». Anche il tono di Celia Selfridge esprimeva viva disapprovazione. «Quello sarebbe dovuto essere il momento degli applausi. Tutto il pubblico si alzò, ma, dopo il rumore prodotto da quel generale movimento, più nulla si udì. Dal palcoscenico provenivano discorsi concitati a mezza voce e rumori sordi di corpi inanimati, che venivano trascinati per sgomberare il tavolato. A parte gli svenuti, tutti gli altri, tranne il primo attore, si sentivano talmente male, fisicamente e psicologicamente, da non poter affrontare, in quelle circostanze, il saluto del pubblico. Ci fu, comunque, un ordine secco al macchinista e, finalmente, il sipario si mosse, sia pure lentamente, con incertezza. Apparve Petruchio, con un sorriso trionfante. Allargava le braccia e guardava a destra e a sinistra per far bene intendere a tutti che il merito non era solo suo, ma di tutta la compagnia. E, poi, i maligni dicevano che Petruchio era invidioso degli altri attori... Non un solo applauso salì dal teatro. Gli spettatori se ne stavano in silenzio, con le braccia conserte e gli occhi sprezzanti, fissi sul palcoscenico. Petruchio riuscì a trascinare, tutti i compagni di lavoro coscienti, uno alla volta, sul palcoscenico. Di quanta forza era capace quell'uomo dall'apparenza tanto fragile!

Da vecchio animale teatrale, Petruchio avvertì, quindi, interpretando correttamente il pensiero del pubblico silenzioso, che a lui solo era attribuito il merito della rappresentazione. Sentì la necessità di salutare per ben otto volte consecutive il pubblico». Anche nel Teatro Grande non si senti più nulla. Solo da lontano provenivano, attutiti, i tonfi dei crolli che segnavano l’inesorabile disgregazione di Pompei. Un solo faro di grandissima potenza si accese per illuminare l’esile figura. Petruchio si piegò in avanti per ringraziare. Il gesto fece salire la camicia da notte. Si rialzò e, con la mano accostata alla bocca, per tre volte mandò un bacio alle gradinate. Prima a destra, poi al centro, ed, infine, a sinistra. Buttò, infine, una rosa in direzione della media cavea. Nel Teatro Grande risuonò un solo, lungo applauso. Quello di Tramma.

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